[di Ernesto Miramondi]

TeatrInGestazione e il carcere

Carcere di San Vittore

[Carcere di San Vittore da flickr di Inside Carceri licenza CC 2.0]

[Ernesto] Che tipo di lavoro state svolgendo nelle carceri? Avevo già letto qualcosa sui vostri lavori in ambito carcerario e con persone con disagio mentale.

[Anna] Per i primi nove anni siamo stati nel manicomio criminale di Aversa, praticamente fino alla sua chiusura. Nel 2014, i manicomi criminali sono stati chiusi e superati attraverso la cancellazione del principio di pericolosità nell’ordinamento sociale e in quello giuridico con conseguente istituzione delle REMS, le così dette mini-O.P.G. Sono presenti in tutte le Regioni.

I manicomi criminali appartenevano all’ordinamento penitenziario. Basaglia fece superare i manicomi civili, che erano di giurisdizione del sistema sanitario, ma non ha toccato i manicomi criminali perché appunto erano sotto la giurisdizione dell’Amministrazione penitenziaria.

Quindi il manicomio criminale era prigione e al tempo stesso manicomio. In tutta Italia ce n’erano sei in cui venivano smistati i così detti “incapaci di intendere e volere”, rei di aver compiuto atti criminali in stato di incapacità intenzionale ovvero senza una manifesta volontà.

Successivamente siamo passati al carcere di Poggio Reale, a lavorare con i detenuti.

  [Maddalena, Aversa da Wikimedia Commons foto di Andrea Coppola – licenza CC 4.0]

[Ernesto] Come “CüntaSú” avevamo l’intenzione di avviare un progetto sull’irreversibilità. Per ora è solo allo stadio embrionale, un pensiero da sviluppare ma il concetto di fondo è la necessità di avviare processi che diano speranza nel futuro, per non vederlo più solo come qualcosa di minaccioso e incombente ma anche portatore di speranze.

C’è bisogno di un nuovo linguaggio che assegni un significato nuovo alle parole e con esso un modo nuovo di intendere, meno legato a stereotipi stantii, privi di logica e fini a se stessi o usati per favorire un potere intento solo a produrre guadagno.

Un linguaggio capace di rigenerare e rigenerarsi, capace di favorire processi di reversibilità e assegnarsi il cambiamento.

Luogo dove per antonomasia è importante un processo di cambiamento per chi, scontata la pena, desidera porre rimedio ad un futuro tutt’altro che roseo, è di sicuro il carcere. Ci è capitato di verificarlo durante un’intervista all’Associazione “Bambini senza sbarre” da tempo promotrice di iniziative per la tutela dei bambini costretti, loro malgrado, a frequentare le carceri. Vanno a trovare un genitore in carcere ma, se molto piccoli, sono rinchiusi in regime penitenziario assieme alle loro mamme.

Per loro più che mai valgono quei processi per ridurre il disagio che provano in seno alla società, fin dentro le scuole. Scardinare lo stereotipo che li vuole già piccoli delinquenti, con un destino già assegnato.

Ridare fiducia, smussando il pettegolezzo attraverso un processo di crescita collettiva e di conoscenza su altri possibili modi di vivere.

Sotto questi aspetti e a titolo esemplificativo giudico valida l’esperienza di Alessandro Fo, professore di Letteratura Latina presso l’Università di Siena, poeta e scrittore.

Questi, entrato una decina d’anni fa per una conferenza presso le carceri di massima sicurezza di Ranza, a San Gimignano, recepita la grande attenzione e il bisogno da parte dei detenuti di comprendere il bello, l’arte e la letteratura, ha continuato la sua opera di volontariato dando vita e partecipando alla formazione di gruppi di lavoro e seminari culturali per l’insegnamento della storia, la letteratura e la poesia.

Incontri molto seguiti, con presenze attorno alle 70/80 persone.

Tra gli assidui partecipanti anche Santi Pullarà, figlio di uno dei più importanti capo mandatari di Cosa Nostra, condannato all’ergastolo per omicidio.

Grande lo scalpore per il fatto che poi questi si è laureato a pieni voti in lettere e che, di fatto, ora gode della libertà condizionale, concessagli dal Tribunale di Firenze.

Carcere di Solliciano

[Carcere di Solliciano da flickr di Inside Carceri licenza CC 2.0]

Scalpore perché un pluriomicida, condannato all’ergastolo, deve rimanere in carcere. Perché la società si deve difendere ed è stata grande l’indignazione mediatica che ne è seguita. Ma se sospendiamo per un attimo il nostro giudizio, meglio ancora il pregiudizio, potrebbe anche venirci il beneficio del dubbio.

Ovvero quello che una persona, che all’epoca dei fatti aveva 23/24 anni, dopo aver scontato 27 anni di carcere duro, può anche essere diventata un’altra persona. Perché il tempo può cambiarti ma soprattutto lo può fare la conoscenza di altre possibili realtà, altri modi di vivere e di essere.

Ma il beneficio del dubbio, in una società fortemente giustizialista in cui è ben fissa nella mente l’immagine stereotipata del delinquente che rimane tale a prescindere, può essere accettato? Può dunque una pena, oltre che castigo per il male arrecato essere, come recita la Normativa nazionale sui diritti dei detenuti, uno strumento riabilitativo?

Secondo Alessandro Fo sì, senz’altro, e il caso di Santi Pullarà ne è un valido esempio.

In un’intervista rilasciata dice: ”Maldini fa il calciatore perché suo padre era calciatore, mio cugino fa l’attore perché suo padre, Dario Fo, lo era e Santi è nato in un ambiente di Cosa Nostra e non ha avuto un gran margine di libero arbitrio per esercitarlo e emanciparsi. E’ stato coinvolto molto giovane e molto giovane è entrato in carcere…. e durante tutti questi anni, 27 di reclusione, il ragazzino inquieto è cambiato. Ora è un’altra persona”.

Bene. Tutto ciò io lo vedo anche nel vostro operato. Nella vostra ricerca del linguaggio mi sembra di cogliere un processo di liberazione culturale. Prima di tutto dalla schiavitù degli stereotipi e di seguito dai processi di ineluttabilità, ovvero di un destino dove il libero arbitrio ha poca possibilità di scampo contro un fato Titano, divoratore.

Mi viene alla mente la risposta che hai dato tu, Giovanni, ad una spettatrice che a fine rappresentazione vi chiedeva come mai, e in particolar modo a Napoli, la scelta di vita troppo spesso aveva connotati delittuosi e che, in fondo, potevano optare anche per altre strade, meno facili ma più sicure. La tua risposta è stata che occorre innanzi tutto avere attorno a sé la possibilità di una scelta e le scelte sono molteplici, ma solo una è quella giusta e non è facile accederci.

Personalmente la ritengo una risposta adeguata perché se vivi in un contesto, che è la tua realtà, con un linguaggio costruito ad hoc, va innanzitutto attuato un processo di decontestualizzazione, anche nel linguaggio, prima di poter applicare il libero arbitrio e trovare quella che è la tua strada.

[Giovanni] Allora, rispetto a quello che è il ventaglio di possibilità di cui si parlava in “Na-Creature”, noi spesso in carcere ci accorgiamo che a volte ti trovi davanti delle persone che guardandole ti viene da pensare “Ma se questo aveva lo zio magazziniere, avrebbe fatto il magazziniere. Ha avuto lo zio camorrista, ha fatto il camorrista.”

Credo, che il margine di scelta umano sia molto ma molto piccolo. Nei contesti educativi si parla di linea ereditaria che è proprio quello che diceva Fo, cioè il fatto che nasci in una linea ereditaria. Rompere con quella linea impone un grandissimo lavoro e quel grandissimo lavoro è da eroi.

Ma su 100 persone quanti eroi ci possono essere? Di sicuro ce ne possono essere cinque, ma gli altri novantacinque? Noi tuttavia, come società non possiamo pretendere che le persone siano tutte degli eroi.

Scriveva Bertolt Brecht nell’opera Vita di Gallileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Perché questo vuol dire che c’è bisogno di andare contro tutti per potersi salvare.

[Anna] Il carcere è un’istituzione totale, così come la scuola, i manicomi o i container e come tale si compie nel concepimento di un determinato spazio fisico, dove avvengono relazioni di gerarchia, restrizioni, limitazioni e potere dell’uomo sull’uomo. Uno spazio che incide notevolmente sui corpi e sui movimenti. Noi diciamo che il corpo dei detenuti diventa quello spazio lì. Lavorare nel carcere è deformarne lo spazio, corromperlo dalla sua essenza primaria, ed è in quel contesto che noi interveniamo, non su singole biografie. Un dato questo che attraversa tutta la nostra poetica.

Per noi la singola biografia è meno importante perché è una cosa privata e soprattutto non può mai essere un esempio per tutti perché ogni vita è unica nel suo procedere.

Se il dato biografico dovesse entrare in un nostro lavoro com’è accaduto per Ugo Russo in “Na-Creature”, non ci si riferisce a lui in quanto sua storia perché allora sarebbe una storia unica. Che nasce e muore con lui.

Possiamo però riferirci allo spazio in cui lui è vissuto, possiamo riferirci al suo ambiente, nelle situazioni oggettivamente leggibili, identificabili e condivisibili come storia di tutti. E questa condizione dà al nostro lavoro valenza politica.

Se dovessimo parlare della storia di uno non avremmo detto niente perché resterebbe comunque un senso di separazione tra le storie.

La mia storia non è la tua storia. Ascoltando la storia di qualcuno io posso anche provare empatia ma questo non dà l’avvio a nessun cambiamento poiché le nostre storie rimarrebbero comunque separate.

A meno che non accadesse qualcosa di forte tra noi, come un coltello affondato nel mio corpo, e allora le nostre storie si congiungerebbero. Ma questo è impossibile nella cultura come nell’arte.

E nell’arte cosa che personalmente non ammetto, anzi odio, è quell’attitudine di molti che fanno teatro-carcere, di voler suscitare un sentimento di pietà. Non “la pietas” che è cosa assai diversa, no, si tratta della pietà contemporanea che genera un sentimento di superiorità e che è cosa del tutto occidentale e assurda!

Quando entro in carcere, quello spazio comprende anche me, io non salvo nessuno, nessuno è innocente così come nessuno è definitivamente colpevole su questa terra e questo ce lo dimostra la vita che viviamo ogni giorno e nei segni che raccogliamo. Senza ipocrisie. Perché se io scendo e sotto casa mia vedo un barbone mi dovrei fermare, lo dovrei accogliere, lo dovrei abbracciare, non farci degli spettacoli. Se vedo la prostituta menata non ci devo farci uno spettacolo, me la devo portare a casa. Basta gli spettacoli su queste cose.

[Ernesto ] Il finto buonismo che di fatto è paternalismo. Dimostrare la mia superiorità potendomi permettere di fare il papà moralista che conduce te, “poverino” sulla retta via.

[Anna] Esatto. Ma non è intenzionale è il meccanismo stesso che lo suscita. A volte è solo ingenuità. Ci sono veramente molti progetti, delle più disparate scuole di pensiero, nel teatro-carcere o così detto teatro sociale.

Il carattere sociale di un’operazione artistica è una conseguenza non può esserne il motore. Non lo deve essere. Assolutamente. Perché altrimenti vorrebbe dire mettersi fuori dall’essere causa di quel sistema, che si sta giudicando e quindi sentirsi superiori.

Ma io non sono fuori dai sistemi che frequento. Ci devo ragionare su, perché ne ho l’obbligo, è il mio lavoro mettere in discussione ciò che è un sistema, ma io ne sono immersa e non solo perché lo subisco, ma anche perché lo produco.

Io non posso pensare di non essere causa della mentalità mafiosa del sud Italia. Non mi posso sentire innocente in questo senso, proprio per niente! E quindi anche il mio lavoro di artista non deve mai essere presuntuoso e credere di rivelare qualcosa.

Non è mai rivelare è solo e soltanto condividere il profondo dubbio di essere umano, cioè umilmente dire: “questo è il mio dubbio, mangiamone tutti”.

Quindi, io posso portare solo i miei dubbi sul palcoscenico, le mie debolezze e in questo caso si tratta proprio di debolezze perché la debolezza è proprio quel qualcosa che ti fa essere schiavo. Debolezza e fragilità sembrano sinonimi. Anche l’uso dei termini è motivo di riflessione, mettiamo sempre in discussione le parole; la fragilità è una condizione a differente della debolezza che è un sentimento. Condizione e sentimento sono due cose differenti e il potere si costruisce a metà tra le due e quindi bisogna fare molta attenzione a sapere qual è la materia che si sta trattando e come la si tratta.

Tutto quanto ora espresso è al principio del nostro lavoro nel carcere. Io infatti ho difficoltà a dire che lavoro con i detenuti. No, io lavoro nel carcere. Dentro la struttura. Perché io ci entro, fisicamente. Sono un corpo che entra in un altro corpo.

[Ernesto] Entri in un contesto monumentale e che per molti è incomprensibile. Impossibile da capire se non ci entri.

[Anna] Perché è chiuso ed è proprio il concetto dell’istituzione totale.

Anche la scuola è chiusa. Noi, infatti, quando diventiamo adulti siamo espulsi da quelle mura e possiamo essere ammessi solo in occasioni speciali e quindi molto ben narrate; se mi capita di essere un genitore vado a parlare con i professori, oppure è un’occasione speciale come potrebbe essere una festa.

Però sono occasioni che predispongono all’entrata di un corpo estraneo, altrimenti io non sarei normalmente ammessa nel corpo della scuola. Quindi la scuola, così come il carcere, è raccontata solo attraverso le sue mura.

E’ impenetrabile per volontà. Perché i sistemi educativi e i sistemi carcerari sono decisi a monte dalla cosiddetta società civile e sono luoghi politici, decisi a tavolino a livello politico.

Sono sistemi normati cioè che tendono alla normalizzazione della società. Altro concetto super pericoloso in cui siamo immersi. Pericolosissimo essere normalizzati perché, e questo Orwell ha cercato di dirlo in tutti i modi possibili, il sistema ci vuole tutti uguali, bravini e al nostro posto. questa è la norma a cui dobbiamo attenerci!

Infatti vediamo cosa è accaduto a Mimmo Lucano. È accaduto esattamente questo processo.

Cesare Beccaria diceva ai Giudici: ”Un diritto fondamentale della giustizia è la proporzionalità della pena”. Cioè, il giudice bravo è colui che legge i contesti e non si rifà alla sola norma. Ovvero è colui che la interpreta in riferimento, e in maniera proporzionale al contesto in cui il reato è accaduto.

[Ernesto] Infatti per Mimmo Lucano, volutamente si sono rifatti alla norma eseguendo, di fatto, una somma dei reati decontestualizzandoli dalla vicenda.

[Anna] Hanno fatto la lista della spesa. Una cosa veramente tremenda e agghiacciante.

Quindi, ovviamente, per un artista che entra a lavorare in un carcere, qualsiasi spettacolo fa, il tema è sempre lo stesso, il potere. Stop.

Ogni lavoro che noi facciamo si interroga sulla forma e sulla materia del potere. Non c’è un altro argomento. Declinato in tutti i modi. E non è inteso come le persone che lo esercitano.  No. Il potere inteso come materia filosofica. Dare forma alla domanda su cos’è il potere.

[Ernesto] Conversare con voi richiede un tempo grande. Molti sono gli spunti di riflessione e non vorrei mai smettere.

[Giovanni] Possiamo sempre risentirci e continuare le nostre conversazioni.

[Ernesto] La prendo come una felice promessa.. Grazie per il tempo dedicato a Enfleurance e per come siete .. a presto.

[Giovanni/Anna] A presto.