[di Maria Elena Gori]

FEDERICO D’AGOSTINO – Parte prima

                                                              [Dal filmato su Federico D’Agostino]

Ero ancora una bambina quando ho conosciuto l’artista Federico D’Agostino; già mi incuriosivano, entrando nella sua casa, gli odori che sentivo, gli oggetti che vedevo e i suoi quadri raffiguranti strani volti grigio-verdi, donne bellissime come quelle delle foto di moda, santi che sembravano uscire dal nero del fondo come fiamme di luce, corpi trafitti dalle frecce, le teste colorate con i capelli di gomma, i suoi mobili, dalle forme mai viste nelle case degli altri… crescendo ho capito quale fosse il significato di quei volti deformati dai colori lividi, di quelle donne elegantissime e tristi, delle sculture di resina colorata con i nomi dei personaggi del mito o del tavolino a forma di orologio sciolto… ed ora che mi ha reso più consapevolmente partecipe della sua poetica sento che le istanze esistenziali che lo hanno ispirato sono ancora fortemente attuali e che urgente è la necessità di raccontarle… immaginando di entrare nella sua bottega-studio mentre è all’opera e di parlare con lui.

[M.E.] Quali esperienze hai avuto all’inizio? Hai incontrato altri artisti?

[F.D.] Con altri 4 amici e una roulotte (una Roller 4 da 8 posti),  iniziammo un “giro d’Europa” di tre anni, durante i quali vivevamo in una sorta di comune facendo lavori occasionali e stagionali, trovati sempre grazie all’aiuto dell’ambasciata italiana all’estero. Fu un periodo di scoperta, di confronto e grande sperimentazione favorita anche da nuovi incontri con persone sempre diverse ed interessanti, che anticipavano di qualche anno il movimento Hippie.

[M.E.] In seguito hai trovato lavoro in fabbrica alla catena di montaggio; quell’esperienza ha influenzato la tua attività di artista?

[F.D.] Eccome se l’ha influenzata! Erano gli anni ’70. Lì la pittura è stata uno strumento in più per esprimere la rabbia, una rabbia giovanile, vera, in un periodo di lotte che a volte erano di sopravvivenza… Ero in una fabbrica grossa, di 1600 operai ed avevamo delle esigenze vere, per esempio quella di lottare per avere 5 minuti di effetto stancante nell’arco delle 8 ore, o mezz’ora di pausa mensa, o per il salario, per la sicurezza degli impianti, i rischi della salute in fabbrica e tutto quello che poteva riguardare quel tipo di lavoro; e quella che noi abbiamo chiamato rabbia, era una lotta vera e propria, organizzata con dei programmi, decisi a tavolino, non solo per provocare delle reazioni ma anche per avere anche delle risposte. La pittura degli anni Settanta parlava di quello che erano le nostre condizioni in fabbrica, fisiche e mentali: mi ricordo benissimo uno dei primi quadri che ho dipinto entrando in fabbrica: è stato un operaio che era alla catena di montaggio che si toglie la maschera dal volto ed ha in mano un saldatore ed ha una bocca spalancata che non si capisce se non respira o se vuole urlare… ed è una situazione che ho proprio vissuto perché il primo giorno che sono andato in fabbrica ho visto quest’uomo che lavorava in fondo alla catena di montaggio, saldava, aveva quell’espressione… e io sono rimasto sconvolto, mi sono chiesto: “ma dove sono entrato? Quanto potrò starci qui dentro?…” E poi ci sono rimasto 12 anni.”

[F.D.] “E’ sempre stato tutto un fermento interno, tutto un cercare di leggere determinate cose e poi rielaborarle mentalmente per poterle poi buttar giù e dipingere, e di tirar fuori quello che ho fatto; di capire quello che succede e di raccontarlo attraverso la pittura, non solo per quello che succedeva in fabbrica allora, ma anche per quello che succedeva all’esterno, nel periodo dei fatti di piazza Fontana, di Brescia; io volevo ricordarli in pittura per quello che sentivo; il mio lavoro era soltanto quello di trasporle, di metterle insieme, di capire come potevo metterle insieme, per renderle esteticamente soddisfacenti a quello che era il mio modo di vedere e di pensare e naturalmente di volta in volta sperimentare! Perché a me è sempre piaciuto anche sperimentare.”

[M.E.] Che simboli ci sono nel quadro con le foto dei magistrati e la donna con alle spalle il poliziotto?

[F.D.] “Tutto il quadro è realizzato con la tecnica del transfer. La foto dei magistrati replicata identica più volte rappresenta la fissità della magistratura che ripete se stessa senza trovare soluzione, senza rispondere in modo chiaro; il poliziotto che li guarda rappresenta i servizi segreti che quasi suggeriscono ai magistrati cosa fare.”

[M.E.] Strana coincidenza… “magistratura” è un sostantivo femminile e nel quadro c’è l’immagine di una donna che fuma con aria indifferente mentre sta sanguinando, perché?

[F.D.] L’immagine della donna, è presa da una foto porno, e rappresenta proprio l’indifferenza di fronte ad un così grave fatto di sangue; ma quello stesso stillicidio di sangue simboleggia anche il trascorrere del tempo inutilmente, in maniera ciclica, come avviene per il ciclo mestruale, che di mese in mese scandisce il tempo della vita e della donna; a tutte le possibili ovulazioni e potenziali fecondazioni che ci possono essere tra un ciclo e l’altro, con il pensiero alle future generazioni: ecco il messaggio di denuncia del quadro: passerà il tempo, continuerà la vita, nasceranno nuove generazioni, ma la verità non verrà mai a galla in modo compiuto ed esaustivo o perché non può o perché non vuole essere dichiarata.”