[Testo e foto di Ernesto Miramondi]

A COLLOQUIO CON RICCARDO PERRONE FONDATORE DELL’ALP

“Legge delega 106 del 2016: “Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, ..”

Il mondo delle Associazioni Onlus è in Italia una realtà di grande rilievo capace di essere tessuto connettivo in situazioni dove lo stato o gli enti pubblici spesso non arrivano o arrivano male. Sono presenti in ogni campo dallo sport alla cura del territorio ma anche di chi abita il territorio, dando una mano nelle situazioni complesse come l’inclusione, l’abbandono, le malattie, il disagio sociale e il sostegno alle famiglie.

Per analizzare a fondo tutti i meccanismi che reggono il mondo delle Onlus e del loro cammino verso una nuova anima organizzativa, il Terzo Settore, potrebbe essere l’argomento in un articolo successivo.

Quello che si vorrebbe ora sottolineare sono le motivazioni, lo sforzo e i meccanismi che si trova ad affrontare chi apre e gestisce una Onlus “seria”. Ovvero realmente capace di rendere un servizio alla comunità. La resilienza che deve mettere in campo per continuare a dare impulso ad un progetto di vita complesso che investe molte persone sia come volontari che come fruitori di servizi.

Insomma da fruitori viene anche da chiedersi, alla presenza di un’opera davvero impegnativa e grandemente virtuosa, che motivazioni possono mai esserci alla base di una scelta così fortemente coinvolgente e univoca?

Che motivazioni per una scelta che mette grandemente in gioco le persone che l’hanno voluta e avviata, rubando un tempo infinito, per poi di fatto avviare qualcosa che sicuramente sarà utile alla comunità ma per nulla remunerativo?

E, in ultima analisi, nel momento in cui per ragioni non certo favorevoli, ci affidiamo a lei, quanto reale credito le diamo?

Ma, eccomi a colloquio con Riccardo Perrone, fondatore assieme a Rosalba, sua moglie, dell’Associazione Lorenzo Perrone, acronimo “ALP”. Si tratta di un’associazione virtuosa che svolge numerose attività di ampio raggio e competenza e che sa coniugare in modo esemplare il servizio reso alla comunità con una modalità d’opera del tutto professionale.

Tanti sono gli indizi che lo confermano, a partire dalla nuova sede della Casa di Lorenzo, così curata e pulita, dotata di un arredo razionale e dignitoso per chi accoglie e per chi ne è accolto.  

Riccardo, che I Cünta Sú conoscono da svariati anni, mi accoglie sulla porta e mi conduce per i locali della nuova Casa di Lorenzo illustrandomi la distribuzione e gli utilizzi degli spazi interni, il luogo deputato agli incontri paziente/psicologo, il locale dove poter gestire riunioni, incontri, seminari. Gli spazi condivisi con altre associazioni per un servizio meglio distribuito. Ci troviamo, a titolo d’esempio, uno sportello di assistenza fiscale ma anche una rappresentanza dei Centri Olimpia per favorire la ginnastica dolce ai malati oncologici ma, sentiamo Riccardo.

[Riccardo] E’ doveroso specificare che La Casa di Lorenzo non è un’associazione a se stante ma è uno dei progetti resi dall’ALP Onlus.

L’Associazione Lorenzo Perrone nel corso di questi anni ha avviato numerosi progetti tra cui, si ricorda, il supporto alla ricerca, erogando tre borse di studio insieme all’istituto dei tumori e Niguarda.

Ha svolto, nelle scuole di istruzione secondaria diversi progetti di cui “Io non me la fumo” con i ragazzi delle scuole medie e la campagna per la prevenzione dai danni da cellulare.

Abbiamo allestito “La Forza delle Donne”, una lettura teatrale liberamente tratta dalla mostra “Le donne raccontano, la mia battaglia contro il tumore al seno”.

Abbiamo tenuto mostre e un convegno a livello Lombardo sul volontariato in oncologia.

Abbiamo predisposto un buon servizio per il trasporto dei pazienti oncologici.

Tutte iniziative dell’ALP.

Anche La Casa di Lorenzo” è uno dei progetti dell’ALP. Diciamo il più impegnativo, il più premiante ma sempre uno dei progetti dell’ALP. Avviato perché l’Associazione Lorenzo Perrone, volendo dare una mano ai malati oncologici e alle loro famiglie, ha operato la scelta di aprire un centro di ascolto. Ma, ripeto, La casa di Lorenzo, così come il trasporto malati sono tutte iniziative portate avanti dall’ALP.

Vorrei poi sottolineare due aspetti fondanti nell’opera dell’ALP e che sono: il primo, noi non curiamo la malattia. Questo è ovviamente compito dei medici e degli ospedali. Noi ci limitiamo a prenderci cura delle persone coinvolte nella malattia. Sia per coloro che hanno avuto la diagnosi, che per i loro famigliari. Lo facciamo perché siamo consci che non sempre le strutture pubbliche sono in grado di prendersi cura degli aspetti umani e psicologici di chi convive con una malattia oncologica. Lo so per esperienza diretta. L’altro aspetto fondante è che tutto quello che facciamo è fatto rigorosamente gratis. Tutto quello che fa l’Associazione Lorenzo Perrone è gratuito. La gratuità è per l’Associazione un valore assolutamente mai negoziabile.

[Ernesto] Riccardo, ci conosciamo da almeno quindici anni, so tutto sulle motivazioni che hanno indotto te e tua moglie a costruire l’ALP,  e in tutto questo periodo ti ho visto viaggiare sempre lungo una precisa traiettoria di vita e di scelte, con caparbia determinazione, realizzando buoni progetti, dando molto alla comunità e, se posso permettermi restituendo a Lorenzo un frammento di vita in più perché vive nei ricordi e nelle opere dell’ALP.  Viviamo in un mondo strano dove chi ritiene cosa buona e giusta essere d’aiuto alla comunità è spesso visto con sospetto. A me capita. Mi capita di leggere nello sguardo di interlocutori a cui presto la mia opera la muta affermazione che tanto poi io di sicuro ci guadagno. Fortunatamente sospetti poi stemperati da una conoscenza più profonda. Ecco, dimmi, l’uomo Riccardo com’è?

[Riccardo] Lascia perdere il personale, non credo che ne valga la pena, non penso che sia interessante. Inoltre ho sempre cercato di tenere separato il dolore privato da quello che è il ruolo pubblico dell’associazione; non è un segreto, lo sai tu perché mi conosci ma è comunque di dominio pubblico che tutto è nato da una vicenda privata ma questo non toglie che il ruolo dell’associazione deve rimanere separato.

Poi se proprio vogliamo esprimere l’uomo, senza scendere troppo nel personale, ecco, mettiamola così; ti sei mai chiesto cosa vorresti che fosse scritto sulla tua tomba? Bene. Quello che a me piacerebbe che fosse scritto è: “ERA UNA PERSONA SERIA”. La serietà nelle azioni più che delle parole come unico metro di giudizio.

[Ernesto] Perdonami Riccardo, non è mia volontà entrare come un lanzichenecco nel tuo privato ed è legittimo il tuo altolà. Ma credimi, sono interessato solo ad alcuni aspetti che di fatto ti appartengono e ponendoli in rilievo possono essere d’aiuto a chi, avvicinandosi, vuole meglio comprendere lo spirito che anima un’associazione come l’ALP e in particolare di iniziative di così alto valore sociale come di fatto è La Casa di Lorenzo”.  

Per come ti conosco io, nel corso di questi quindici anni, posso dire la mia di sensazione, ovvero che tutte le tue iniziative hanno dietro sempre un buon livello preparatorio. Non sono mai banali, e sono sempre gestite con buona professionalità e un ottimo livello culturale. Questo anche nei tuoi interventi sulle nostre iniziative, de I Cünta Sú, interventi sempre appropriati e con solidi argomenti.

Ma, perdonami, occuparsi di ammalati e dei loro famigliari, aiutandoli, dando loro sostegno in problemi che li investono fin nel profondo non è cosa facile. E’ un impegno gravoso sotto tutti gli aspetti perché necessita la costruzione di una struttura d’eccellenza fatta di volontari, lavoratori e specialisti. Serve allestire un luogo operativo e ovviamente trovare i fondi necessari. E per questo servono grandi motivazioni. Come direbbe mio padre, ci vuole soprattutto cuore!

[Riccardo] Non so. Sta ad altri valutare il nostro lavoro. Noi non siamo così presuntuosi. Ti assicuro che persone che fanno cose importanti, incisive e molto belle ce ne sono molte. Persone che, come me e mia moglie, sono passate attraverso un dramma famigliare e che poi hanno trasformato questo in qualcosa di utile per gli altri riuscendo a farlo benissimo ce ne sono tante. Noi non siamo un’eccezione, anzi.

Quando nasce un dolore grande, come può esserlo la malattia e la perdita di un figlio, ci sono solo due strade che si possono percorrere. Una è quella di continuare a soffrire, sbattendo ripetutamente la testa contro un muro, ed è una cosa che in privato è stata perseguita molto. L’altra passa attraverso una rielaborazione forse utopica. Quella di poter pensare che il dolore per quanto è accaduto possa divenire uno strumento generativo. Una condizione per generare altro.

Volevo riportare quanto detto da Eduardo Galeno in un’intervista a proposito dell’Utopia: L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare”.

E qui, forse, entriamo in un campo dove possiamo ritagliarci un pezzetto di merito: non abbiamo mai smesso di camminare!

Non so se tutto questo è cuore. Io e mia moglie abbiamo voluto creare un’associazione. Sicuramente non siamo gli unici. Parlavo con un amico sacerdote e mi diceva che due famiglie, entrambe hanno perso un figlio ed entrambe hanno creato un’associazione. Un figlio è morto improvvisamente durante una partita di basket, l’altro in un incidente, i loro genitori hanno preso spunto da ciò che è stata causa della morte dei loro cari e hanno voluto creare un’associazioni in quel contesto.

Purtroppo però ci si rende ben presto conto che il cuore non basta. Occorre prepararsi ad un’opera di resilienza infinita perché posta la volontà di proseguire in una realtà che, come abbiamo da subito deciso io e mia moglie, doveva essere gratuita, sono emersi da subito altri aspetti, sicuramente meno affascinanti, ma purtroppo fondamentali per la prosecuzione di un’idea. Aspetti che se non risolti, non si andava da nessuna parte.

Per dirla come i miei amici toscani “senza lilleri non si lallera”.

Questa realtà che vedi attorno a te, da un punto di vista strettamente operativo, non è dissimile da quella di un’azienda, con cinque stipendi da pagare e un’organizzazione da tenere in piedi, quindi, la vera difficolta è riuscire a coniugare il cuore con la parte economica.

Posso affermare con certezza che nell’intraprendere il percorso per costruire l’ALP, il cuore, nonostante le difficoltà organizzative e costruttive, è stato una cosa naturale. La parte difficile è stata pensare come mandare avanti economicamente il tutto nella quotidianità. Questo è a tutt’oggi difficile da mettere in atto, roba da portar via la testa, ma è ancor più difficile farlo capire.

E questo nonostante la grande e ampiamente dimostrata ricaduta sociale che l’attività dell’ALP ha avuto e tuttora ha sulla collettività. Quanto ha fatto e fa a tutt’oggi risparmiare in termini di servizi resi. E, credimi, non sempre la Divina Provvidenza ci è amica e dunque la garanzia nella continuità nei servizi erogati dall’associazione si traduce in una costante richiesta di generosità al mondo profit di Cologno. Senza, potremmo in breve tirare una riga sulle nostre attività.

Altra cosa che mi preme rilevare e lo faccio con una frase di Denis Diderot “Non basta fare il bene, bisogna anche farlo bene”. Che si identifica poi con il termine competenza.

Fare volontariato non significa fare cose in modo raffazzonato. La beneficenza parrocchiale che andava bene un tempo ora ha fatto il suo tempo e non vengono più resi dei servizi solo per buona volontà.

No. Viene sempre posta una grande competenza associata poi a un’altrettanta grande assunzione di responsabilità; mia ma anche delle psicologhe e di tutte quelle persone che operano nell’associazione e per conto dell’associazione. Per me e Rosalba è sicuramente motivo di grande orgoglio la consapevolezza dell’aver fatto nascere un’associazione traendo forza da quanto ci è accaduto ma altrettanto motivo di orgoglio è la consapevolezza che quest’associazione, giorno per giorno, lavora declinando le esigenze del cuore con la competenza nell’operato.

Qualche giorno fa l’Assessore alla Cultura è venuta a visitare i locali dell’associazione e la prima cosa che ha rilevato è stato il nostro rispetto per il luogo, ovvero della cosa pubblica affidataci.

Ci ha fatto i complimenti per come è stata arredata. Un ambiente sobrio e decoroso, portatore di rispetto verso le persone ammalate che, entrando, non devono sentirsi ulteriormente depresse dal luogo.

Ma anche questo, non è facile, implica grande competenza nel fare e anche nel trovare i mezzi per poter fare. Le cose vanno ben studiate e per farle i soldi non cadono dall’alto. Bisogna “sbattersi” ma anche per questo occorre serietà operativa.

[Ernesto] Riccardo, capisco in pieno cosa intendi per competenza. L’ho sperimentato sulla mia pelle diverse volte. Quando è morto mio padre per esempio, con qualche volontario facilone che cercava di farlo ridere per sdrammatizzare aumentando invece la sua disperazione. l’ho sperimento quotidianamente nel mandare avanti l’opera del mio gruppo culturale e anche nelle cose che vorrei attuare ma che non mi permetto di fare perché non mi ritengo ancora all’altezza e ho paura di sbagliare. In ambiti dove in gioco è l’umano vivere e la disperazione la fa da padrona, non si può improvvisare. Così come quando si porta avanti un lavoro e le persone credono in te. Perché il rischio grande e quello di bruciare la buonafede e le loro speranze e il danno in questo caso sarebbe davvero grande.

[Riccardo] In riferimento a quanto accaduto a tuo padre, una cosa che ho notato in situazioni tragiche, dove spesso la malattia manteneva un decorso sfavorevole, era che le persone, più che preoccupate sul tempo che le restava da vivere, era di poter essere ascoltate. Il bisogno assoluto di un ascolto empatico dove poter condividere stati d’animo ed emozioni.

In simili situazioni, uno degli aspetti che davvero può far male è cercare di sdrammatizzare. “Se sto vivendo un dramma e ne sono perfettamente cosciente, non mi venire a rompere le palle sdrammatizzando! Io sto morendo cacchio e per me è un dramma per cui non venire a farmi ridere perché non ho voglia di ridere”.

Altro aspetto rilevato è l’inadeguatezza di fronte alla altrui sofferenza. Qualcuno ha detto che una malattia o la si combatte o ci si convive. Se non la puoi combattere né conviverci, allora, forse, è opportuno che te ne stai lontano. Quindi non andare in giro a dare pacche alla gente per inadeguatezza o superficialità. Detesto la cosa e l’ho vissuta spesso durante la malattia di Lorenzo. 

Aspetto che invece rispetto moltissimo è la paura. La paura di confrontarsi con il dolore è umana perché la sofferenza degli altri è lo specchio di quanto noi non vorremmo vivere. Specialmente se si tratta della sofferenza per un figlio.

Dopo la perdita di Lorenzo abbiamo fatto diverse iniziative con un’associazione che si occupava e a tutt’oggi si occupa specificatamente di bambini oncologici.

Eventi ludici per “staccare” i bambini ammalati. Anzi, forse si occupava di più delle famiglie dei bambini ammalati. Genitori, parenti, travolti da quanto stava loro accadendo e scaraventati in un tunnel di disperazione che conoscevamo bene e la nostra attività consisteva proprio nel creare momenti di allentamento della tensione.

Io e mia moglie siamo andati in molte loro iniziative ma non ci siamo mai presentati come appartenenti all’associazione. Questo perché la domanda successiva sarebbe potuta essere “e vostro figlio?” E l’inevitabile risposta, “Il nostro ora non c’è più”, sarebbe stata terribile per loro perché avrebbe risvegliato in pieno le loro paure. Il nostro vissuto li avrebbe messi a confronto con un evento che non potevano accettare, perché era lo specchio dei loro peggiori fantasmi. Per questo dico che la paura di confrontarsi con certe cose è umana, ne comprendo e ne rispetto la condizione, così come per il pianto. ”Restiamo umani” diceva Vittorio Arrigoni e personalmente credo che di fronte al dolore l’unica strada vera rimane ancora il restare umani.

In un aforisma Giuseppe Moscati inizia così “Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare ma come il grido di un’anima…”

Ed è questo che l’ALP vuol fare e fa.

Quando entri in un ambito come quello oncologico capisci bene la differenza tra la quantità e la qualità della vita che può essere letta come la differenza tra la guarigione e la cura. Sono due concetti diversi, difficili da disgiungere ma è compito di quest’associazione farlo. Prendersi cura non vuol dire guarire le persone, per quello ci sono i protocolli e l’operato dei medici e degli ospedali. Prendersi cura vuol dire migliorare la qualità della vita, della loro vita.

Vedi, vivere in un ambito come il nostro si impara a convivere con il dolore e, in una certa misura anche con la morte. Ma l’ascolto, il bisogno di essere ascoltato, di avere presso di sé un interlocutore reale, riveste un ruolo importante per l’equilibrio psicofisico dei malati e delle persone a loro vicine.

Mi ricordo che molti anni fa, da bambino, mi capitava di sentire di qualcuno che andava in ospedale e che dopo breve tempo ritornava con una sentenza inappellabile; “ormai non c’è più niente da fare”. Basta.

Da quel momento la persona era già morta, collocata su un binario morto. Tornava a casa e aspettava, spesso nel dolore, la sua fine.  

Ora, fermo restando la mano santa che sono le attuali cure palliative, che riescono a migliorare di molto la qualità della vita, esistono anche altri aspetti che, se attuati in modo professionale, aiutano ulteriormente a migliorare la vita perché non isolano il soggetto malato né i suoi cari. Fanno da tessuto connettivo che attorno a loro riempie gli spazi creati dalla paura, dal disorientamento e perfino a volte anche dalla vergogna di non poter più essere efficienti.

Noi abbiamo il ricordo di una persona che ci è rimasta nel cuore. Morta circa un anno e mezzo fa, era in un hospice ed era un ex infermiere. Lui conosceva benissimo la sua situazione. Sapeva che le sue aspettative di vita erano al massimo di tre settimane. La nostra psicologa lo seguiva a distanza per via della pandemia. Lui l’ha vista quattro, cinque volte e lei gli dava dei punti di riflessione sulla sua vita, sulla famiglia, sul rapporto con i figli e la moglie e lui ci rifletteva sopra e la volta dopo rispondeva. Credimi, quando si fa un lavoro come il nostro, nella sofferenza si capisce subito se si ha di fronte qualcuno di speciale e lui lo era e fino all’ultimo respiro, lucido, ha lavorato sul senso della sua vita e sul rapporto con i suoi cari. Allora in situazioni come questa viene da chiedersi cosa noi abbiamo dato a quest’uomo. Di certo non l’abbiamo guarito, nessuno poteva, ecco noi ci siamo presi cura di lui e lui soprattutto si è preso cura di noi perché il ritorno in termini di crescita umana è stato davvero grande.

Perché guardi in te. Fai pace con la morte e giusto un po’ con la sofferenza. Fai pace con tutto quello che ti circonda. Quello che non ti dà pace e far capire a livello politico che quello che stai facendo ha un valore grande per la collettività e che gli va dato il giusto, solo per poter continuare.

[Ernesto] Trovo invece che associazioni e soprattutto iniziative come La Casa di Lorenzo abbiano il dono di saper regalare speranza.

In situazioni spesso tragiche come solo le malattie oncologiche sanno essere, voi, nell’ascolto e nella presenza, sapete donare serenità ai malati e un senso di reversibilità e di ritorno alla vita per le persone che rimangono.

Speranza. In effetti c’è bisogno di speranza. Ai giorni nostri, in questo mondo, c’è più che mai bisogno di credere nella reversibilità. In ogni ambito, e bisogna lavorare per questo.

[Riccardo] Mi sembra di ravvisare nelle tue parole una grande fiducia nell’umanità. Cosa che invece io in parte ho smarrito. Anche se poi questo non mi impedisce di operare a pieno ritmo nel sociale. Lo faccio perché non saprei essere diverso, perché questa è la mia natura. Sono nato così e forse sono stato formato così anche dall’esempio dei miei genitori. La disponibilità verso gli altri è sempre stata nei fondamentali della mia famiglia. Ricordo mia madre che un paio di pomeriggi a settimana partiva a piedi e arrivava al Radaelli per dar da mangiare ai vecchietti allettati.

Ma l’umanità è altra cosa. Vedi, prendendo spunto dal libro di Mark Rowlands “Il lupo e il filosofo”, nella metafora dell’uomo che oscilla tra l’essere scimmia o lupo, ecco, chi vedo spesso vincente non è certo il lupo, che in Rowlands è la parte buona, dedita ai bisogni e alla protezione del gruppo.

La parte che in questo tempo a me pare predominante è quella scimmiesca e l’immagine che mi appare è quella di un’umanità dedita alla conquista a discapito dei più deboli, incurante verso i diritti degli altri e del rispetto per l’altrui dignità. Mi vien spesso difficile trovare il senso del giusto, del franco e sincero in mezzo a tanto rumore. Fortunatamente non è sempre così.

[Ernesto] Vero! Tutti noi animali socialmente evoluti operiamo impiegando quella parte scimmiesca che è la nostra intelligenza collettiva. Una condizione che troppo spesso è abusata e apre la strada a comportamenti finti, al tradimento, all’operare per fini ad esclusivo beneficio individuale. Una parte della nostra personalità è indubbiamente scimmiesca ma siamo anche lupi. L’importanza, come sempre, la fa la coscienza, il senso di giustizia e un buon insegnamento al vivere nel rispetto e nella cura degli altri. Magari anche con l’esempio dei pochi lupi.

Non sono poche le persone oneste, le troviamo in tutte le fasce sociali, così come le pessime persone ma, in fondo, si può provare a coniugare l’agire da scimmia non dimenticando mai la nostra natura anche di lupo.

E a tal proposito devo dire che la tua componente lupo è forte e persegue il fine di proteggere quella parte del branco in difficoltà.

[Riccardo] Tutto ciò è sicuramente motivo di riflessione e sicuramente avremo modo di riparlarne in seguito.

[Ernesto] Caro Riccardo, vedo che hai persone che ti stanno attendendo e non voglio trattenerti oltre. Ti  ringrazio per il tempo a me concesso e per quanto hai reso e rendi alla comunità. A presto.