[di Anna Roberto]

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  [Proteste in Iran – Wikimedia Commons, Taymaz Valley licenza CC 2.0]

Ci sono gesti che restano nella storia. E i grandi avvenimenti sportivi sono ribalte che possono amplificarne i messaggi. Quando la nazionale di calcio iraniana, nell’esordio di un Mondiale che era solo da boicottare, decide compatta di non cantare l’inno nazionale in sostegno alla rivolta in atto nel suo paese, tornano alla mente altri episodi che hanno avuto la forza di accendere sui palcoscenici del mondo i fari per le lotte sui diritti civili, per i più deboli, di appoggiare movimenti antirazzisti, manifestare contro le dittature, incarnare le sollecitazioni e le istanze di cambiamento.

Sono passati più di 50 anni da quel 16 ottobre 1968, quando alla premiazione della finale dei 200 metri piani, nello stadio olimpico di Città del Messico viene issata la bandiera a stelle e strisce e risuonano le note di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale degli Stati Uniti, per la medaglia d’oro. Sul podio due afroamericani che scriveranno un capitolo di ribellione potente la cui immagine silenziosa, che nessuno è ancora riuscita a cancellare, risuona forte.

Sono Tommie Smith e John Carlos, hanno vinto, anzi hanno stravinto perché Smith fa registrare il primo posto con 19″83 scendendo per primo al mondo sotto i 20 secondi e Carlos terzo con 20″10. In quel momento possono avere tutto perché sono sul tetto del mondo. Invece, con le scarpe in mano e a piedi scalzi, salgono sul podio e dopo aver ricevuto la medaglia, alzano verso il cielo il pugno chiuso guantato di nero, simbolo della protesta per i diritti umani e abbassano la testa in segno di rifiuto: quell’inno non è il loro.  

“Ho indossato il guanto nero sulla mano destra e Carlos quello sinistro dello stesso paio. Il mio pugno alzato voleva dire il potere dell’America nera. Quello di Carlos l’unità dell’America nera. Insieme abbiamo formato un arco di unità e forza” (Tommie Smith).

 Un gesto oggi riconosciuto leggendario, ma in quel momento sullo stadio scende il silenzio e quel gesto viene disapprovato perché può danneggiare l’intera nazione. Tommie Smith e John Carlos vengono sospesi dalla nazionale americana, espulsi, costretti a lasciare Città del Messico in 48 ore per vilipendio alla bandiera. Al loro rientro negli Stati Uniti verranno minacciati, insultati, discriminati, costretti ai lavori più umili.

Anche l’australiano Peter Norman era su quel podio, arriva secondo e in quel momento è il più grande velocista del suo continente; la sua forma di protesta è quella di indossare lo stemma dell’Olympic Project for Human Rights; pagherà caro quel suo gesto di solidarietà e verrà costretto a non correre più.

Vera Caslavska

  [Vera Caslavska Da Wikimedia Commons, licenza CC0 1.0]

Ma non finisce lì in quella Olimpiade del ’68. I tre velocisti non saranno soli nella protesta per i diritti umani. La più grande ginnasta ceca di tutti i tempi e tra le più grandi del mondo, Vera Cáslavská, rischia di non arrivarci mai a Città del Messico, perché contro l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia firma il manifesto anticomunista “Duemila Parole” e quando in agosto i russi occupano Praga lei è “persona non gradita”. Fugge, si nasconde nelle foreste della Moravia, si allena in un casa di campagna sollevando sacchi di patate, appendendosi agli alberi, spalando carbone ed eseguendo esercizi a corpo libero nel prato davanti casa.

Poi riesce a partire perché è troppo famosa per non far sollevare dubbi. Tuttavia alle Olimpiadi, benché imbattibile (tre ori consecutivi), costringono la giuria ad assegnare alla ginnasta russa l’oro, prima nell’esercizio alla trave e poi nel corpo libero pari merito con la Cáslavská, nonostante fosse fosse sotto gli occhi di tutti il giusto risultato. Vera Cáslavská non ci sta e costretta a condividere il podio più alto china la testa durante l’inno russo rifiutandosi di guardare la bandiera del paese che ha soffocano la Primavera di Praga nel sangue.

Vera Caslavska

[Campionati europei Vera Cáslavská – Da Wikimedia Commons, licenza CC0 1.0]

Quel gesto le costa la carriera. Al ritorno viene indagata, vogliono che ritragga tutto compresa la firma nel Manifesto. Lei si rifiuta e viene bandita da ogni competizione. Le vietano di gareggiare, allenarsi, espatriare, lavorare. Sarà costretta per vivere a fare le pulizie e alla fine senza la visibilità di Smith e Carlos, cade in depressione e verrà rinchiusa in una casa di cura. Sarà riabilitata solo dopo la caduta del muro di Berlino

“Dopo aver raggiunto la cima dell’Olimpo, non sono scesa per il percorso più facile. La mia strada è stata di pietre, discese a precipizio e pozzi profondissimi. Se avessi rinnegato quel manifesto e quella speranza, la gente che credeva nella libertà avrebbe perduto fiducia e coraggio. Volevo che conservassero almeno la speranza”.

Un anno prima di quella Olimpiade del ’68, Muhammad Ali, il grande campione del pugilato si vede revocare il titolo mondiale dei pesi massimi per il suo rifiuto a combattere in Vietnam. Una battaglia tra le più simboliche della storia per la pace e i diritti degli afroamericani.

Muhammad Ali 1966

  [Da Wikimedia Commons, Muhammad Ali 1966 licenza CC 3.0]

“La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera”.

Fu condannato, anche se poi in galera non ci andrà. Ma in quegli anni non potrà più salire sul ring.

Carlos Caszely

[Da Wikimedia Commons, Carlos Caszely licenza CC 2.0]

Per cinque anni l’attaccante Carlos Caszely non verrà più convocato nella nazionale cilena di calcio perché nei Mondiali del 1974 si rifiuta di stringere la mano al dittatore Augusto Pinochet e viene immediatamente espulso nel match d’esordio contro la Germania Ovest (il primo cartellino rosso della storia!).

E’ il giocatore di football americano Colin Kaepernick il primo ad inginocchiarsi durante l’inno per opporsi alle discriminazioni razziali negli Stati Uniti. E’ il 2016 e da allora, benché il suo gesto sia diventato iconico, Colin è rimasto senza contratto fino al 2022. Nel 2017 promuovere un’azione giudiziaria nei confronti dei proprietari delle squadre della NFL con l’accusa di essersi messi d’accordo per non ingaggiarlo a causa della sua ribellione politica.

Il comitato organizzatore dei Mondiali di nuoto svoltisi a Budapest nell’estate del 2022 decide di non eseguire un minuto di silenzio per le vittime  dell’attentato di Barcellona di pochi giorni prima. Lo fa per tutti il nuotatore spagnolo Fernando Alvarez, che rimane fermo sul blocco di partenza mentre i suoi avversari partono. “Mi sento molto meglio così, anche perché certe cose non valgono tutto l’oro del mondo…”

Un vero e proprio scacco matto per i diritti umani quello della Regina degli scacchi, Anna Muzychuk, insignita con la più alta onorificenza di Gran Maestro.

“Tra pochi giorni perderò due titoli del campionato del mondo, uno dopo l’altro. Ho deciso di non andare in Arabia Saudita. Per non giocare secondo le regole di qualcun altro, per non indossare l’abaya (un lungo abito che copre tutto il corpo delle donne), per non essere necessariamente scortata quando sono fuori, per non sentirmi una creatura di seconda categoria. (…) Questa è una presa di posizione per far valere i diritti in cui crediamo, la cosa più terribile è che sembra non interessare a nessuno”.

Anna Muzychuk

[Anna Muzychuk foto da Flickr di Andreas Kontokanis licenza CC 2.0]

La federazione (FIDE) tenta di farle cambiare idea cercando di trovare un compromesso con l’Arabia, ma non si tratta di un abito o di un velo “personale”.

Si tratta di giustizia. Si tratta di diritti e di libertà.