[Intervista di Anna Roberto]

Giuliana Traverso e la sua scuola “Donna Fotografa”

Un ricordo di Laila Pozzo

    [Fotografia scattata da una Laila Pozzo bambina a Giuliana Traverso. Una prova – 1990]

Pochi giorni fa è scomparsa la fotografa Giuliana Traverso. Con la sua scuola “Donna Fotografa”, fondata a Genova nel 1968, ha dato la possibilità a molte donne di poter esprimere attraverso il linguaggio fotografico la propria potenzialità creativa e la propria interiorità. Vogliamo ricordarla assieme alla fotografa Laila Pozzo; nata a Milano nel 1967, i suoi lavori sono stati più volte premiati a livello internazionale. E’ stata assistente di Douglas Kirkland, Joyce Tenneson e Sarah Moon. Numerose le sue mostre personali e collettive. Collabora con importanti aziende pubblicando sulle più note testate italiane.

[A.R.]: Laila, tu hai iniziato a fotografare proprio frequentando i corsi di Giuliana Traverso. Vuoi raccontarci di quella tua esperienza e sul significato che ha avuto quel percorso per la tua fotografia? 

[L.P.]: Ho incontrato Giuliana che ero giovanissima, quasi una bambina, perché ho iniziato ad interessarmi di fotografia molto presto; andando al liceo, però, non potevo frequentare una vera e propria scuola e tra i corsi che avevo considerato c’era quello di Giuliana, anche se, inizialmente, ammetto di essere stata molto titubante, non mi convinceva molto questo “Donna Fotografa”; poi per puro caso mi era capitato di vedere la mostra di fine corso e i risultati che queste donne avevano raggiunto in soli 5 mesi mi avevano sorpreso, quindi ho abbandonato le mie remore e mi sono iscritta al corso serale. All’inizio non è stato semplicissimo, perché io ero proprio la più piccola e l’età media delle donne era più adulta, donne che di giorno lavoravano e la sera seguivano il corso. Inoltre ero di una timidezza patologica ed anche il mio immaginario era completamente diverso, cioè il fatto di rivolgersi ad un pubblico femminile, negli anni in cui io andavo a scuola, aveva anche un senso politico, invece a Giuliana questo aspetto non interessava, aveva un approccio più intimo, aveva trovato una chiave, un punto di contatto per passare a noi donne quegli elementi della fotografia che ci stavano più a cuore. Anche senza quel preciso momento storico, penso che avrebbe fondato lo stesso la sua scuola. E’ stata una combinazione di eventi.

Il tutto andrebbe poi contestualizzato, perché 30 anni fa, quando io ho fatto il corso, le donne erano molto diverse da quelle di oggi e anche rispetto alla fotografia c’era un approccio completamente diverso; sia nel percorso da professionista che in quello dei circoli fotoamatoriali, imperava il mondo maschile. Erano poche le fotografe professioniste e per le donne c’erano effettivamente delle difficoltà. In generale si sentivano inibite. Nei suoi corsi Giuliana aveva trovato un linguaggio femminile per dire certe cose, ci si poteva sentire senza inibizioni, senza l’occhio critico del fotoamatore uomo puntato addosso. Questo ha funzionato moltissimo, perché attuava delle dinamiche molto sentite dal pubblico femminile. Riusciva a ricreare una modalità per farti crescere in maniera molto diretta con te stessa, con le tue fotografie. Si poteva ascoltare Giuliana per delle ore, aveva una capacità di narrare, di insegnare che era straordinaria, aveva una voce incantevole, una specie di pifferaio magico, con questo suo modo di prenderci per mano, di coinvolgerci e farci scoprire la fotografia in relazione a noi stesse.

[A.R.]: Quando si fotografa non si “imita” il mondo, non lo si riproduce, ma si crea la propria visione del mondo; penso che Giuliana Traverso con la sua scuola, abbia dato un importante contributo a questo percorso, che è una rivelazione di se stessi, un ritorno a se stessi, un mettersi in gioco, quasi uno strappare al caos uno spazio di silenzio, un frammento di ciò che è “essenziale”. In questa centrifuga che è diventato oggi il mondo, in questo sistema accelerato, la strada tracciata da Giuliana Traverso sembra essere più che mai attuale. Ha ancora senso, secondo te, oggi, una scuola come “Donna Fotografa”?

[L.P.]: Non lo so, non credo. La fotografia è cambiata tantissimo, è cambiato anche il rapporto che le donne hanno con essa. Oggi in una scuola fotografica professionale l’80% è costituito da donne e se un tempo, parlo per come la vedevo io ma penso anche in senso generale, era anche uno strumento per relazionarsi col mondo esterno, per indagarlo, oggi è esattamente il contrario, siamo nell’era del selfie, dove tutti usano il mezzo fotografico e soprattutto molte ragazze lo rivolgono verso se stesse. Era proprio diverso anche il concetto di scuola. Adesso i giovani hanno a disposizione un tutorial per tutto. Noi eravamo alla ricerca disperata di informazioni, mentre oggi i giovani possono dare per scontato che le informazioni sono comunque accessibili; noi avevamo un desiderio, una spinta, una curiosità, e poi la necessità direi, di trovare dei maestri, sia per carpire queste informazioni che per avere una guida. Oggi questo è un po’ svanito. I ragazzi fanno la loro strada anche da soli, anche velocemente, a volte hanno talento. E tutto questo ha degli aspetti positivi e anche negativi. Noi, per esempio, dovevamo trovare qualcuno che ci offrisse una possibilità, un articolo su un giornale, una mostra, ci si doveva guadagnare la fiducia di qualcuno, adesso basta un profilo su Instagram o su Flickr che funzioni bene e il tuo pubblico lo puoi trovare. E’ tutto molto più immediato e credo che anche la qualità media si sia alzata tantissimo, ma mancano i picchi, si scopiazzano un po’ tutti, c’è una sorta di “ispirazione a catena”.

[A.R.]: Una sorta di livellamento, magari un livellamento di buona qualità, ma dove poi si rischia di affogare, di perdere magari i veri talenti.

[L.P.]: C’è molta più visibilità, ma è molto più difficile emergere, anche perché è già stato detto tutto. Non è facile trovare nuovi modi per raccontare e quindi non so quanto avrebbero senso, in quest’epoca, i corsi di Giuliana Traverso, proprio perché la sua scuola si basava sulla figura del maestro e non so quanto le ragazze di oggi, che sono molto più sicure di sé, siano disposte a seguire una figura guida. Erano momenti molto diversi, tutto era da scoprire, ora tutto è stato ribaltato e trovare una propria voce diventa molto difficile.

[A.R.]: Però forse, questa sicurezza può essere solo apparente.

[L.P.]: Forse, ma oggi tutto è apparenza e loro si basano proprio su questo. Mi sembra che, in prima battuta, le ragazze siano molto più ambiziose dei ragazzi, vogliono bruciare le tappe più velocemente e sul web hanno a disposizione delle risorse incredibili, dove si continua ad imparare, quindi è proprio il concetto di “scuola di fotografia” che ormai ha dei presupposti diversi e penso che un corso come “Donna Fotografa” abbia concluso il suo ciclo. Giuliana Traverso, che comunque era un personaggio complesso, aveva il grandissimo dono dell’insegnamento, bisogna riconoscerlo, ha avuto la capacità di inventarsi veramente qualcosa che è servito, perché ogni anno dai suoi corsi uscivano una sessantina di donne preparate. Le sarò sempre riconoscente perché lei per me è stata la mia crescita.

[A.R.]: Laila vorrei parlare anche del tuo ultimo progetto web “Breakaleg – ritratti di scena” (termine anglosassone che equivale al nostro “In bocca al lupo”), dove i tuoi ritratti raccontano un inconsueto punto di vista del teatro: la relazione tra te e gli attori e quella tra gli attori e i loro personaggi nel momento in cui entrano in scena.

[L.P.]: L’idea era quella di raccontare il teatro non tanto attraverso la fotografia di scena, ma attraverso i ritratti dei personaggi che vengono portati in scena. Dal un lato perché il ritratto mi è congeniale, dall’altro perché, rispetto a come è cambiato il mondo del teatro negli ultimi anni, ci sono degli spettacoli anche molto belli ma con fotografie di scena che non rendono loro giustizia. A volte le scene sono molto semplici, le scenografie scarne, magari ci sono luci che funzionano benissimo durante la rappresentazione ma che non funzionano per niente dal punto di vista fotografico. E’ stata una modalità per riuscire a raccontare quello che avveniva in scena senza essere per forza sulla scena durante lo spettacolo. Andavo prima a vedere lo spettacolo e se lo trovavo interessante chiedevo di fare questi ritratti; nel frattempo mandavo uno spettatore “X” tra il pubblico (poteva essere un addetto, un assistente, un cuoco, un architetto, un insegnante che andava con la classe) che ci raccontasse poi la serata. Il senso è che in fondo, anche se magari lo spettacolo non è riuscito del tutto o se non ci è piaciuto del tutto, c’è sempre qualcosa, un dettaglio, una frase, uno spunto per riflettere che ci portiamo a casa. Il sito poi ha iniziato a funzionare e diversi teatri hanno iniziato a chiamarmi per fare questi ritratti anche per i loro spettacoli.

[A.R.]: E’ interessante che il Teatro Elfo Puccini abbia deciso di allestire la mostra proprio nella Galleria del Teatro, quasi a sancire uno stretto legame tra l’arte e il suo ambiente.

[L.P.]: Con alcune persone dell’Elfo è nato un vero e proprio rapporto di amicizia, oltre che di stima reciproca, e quindi questo progetto, che si è sviluppato negli anni, è continuato con loro, però la prima volta che abbiamo allestito le mostre nei Foyer, assieme a Filippo Quaranta e Ippolita Aprile, abbiamo coinvolto più teatri del territorio milanese, oltre all’Elfo Puccini c’erano anche i Filodrammatici, La Cooperativa, Quelli di Grock, il Menotti.

[A.R.]: Ti chiedo un ultimo racconto sul tuo progetto del 2005 “Me and Holga in Paris”, sono fotografie con un’atmosfera magica, quasi nostalgica. 

[L.P.]: Ma come hai fatto a trovarle? Non sapevo nemmeno di averle ancora lasciate in giro! Guarda a volte capita che mi scrivano cose anche molto carine del tipo “i tuoi lavori catturano l’anima”, in realtà io non ho l’ambizione di catturare l’anima di nessuno, nel mio lavoro ho un metodo molto professionale e quando è commissionato anche commerciale, ovvio che poi gli ingredienti li cucino io, voglio dire che poi c’è la mia lettura e la mia visione delle cose, ma dietro c’è sempre un metodo. “Me and Holga in Paris” è nato come un progetto commissionato da Cartier, quando lavoravo per il magazine CartierArt. Avevano preso alcuni fotografi che lavoravano per loro, tra cui me, ed altri selezionati, ricordo per esempio per l’Italia Maurizio Galimberti. Ci hanno messo su un pullman e ci hanno fatto andare in giro per Parigi come fossimo turisti, passando dai luoghi più tipici della città. Io ero già un po’ terrorizzata dal trovarmi assieme a tutti questi fotografi di un certo spessore, temevo di non riuscire a dare un’impronta personale al lavoro, quindi ho deciso di portare uno “strumento diverso” dalla mia macchinetta digitale e ho portato la Holga, da lì il titolo “Me and Holga in Paris”; poi mi sono appassionata a questa macchina fotografica e me la sono trascinata dietro in diverse altre occasioni. Quel progetto è nato così.