[di Anna Roberto] 

A ROOM WITHOUT A VIEW

(Regia e sceneggiatura Roser Corella – Musica Paul Frick – Fotografia Roser Corella e Alfonso Moral Suono Gàbor Ripli, Anno 2020

Donne siriane e palestinesi, Libano

[Donne siriane e palestinesi, Libano – da flickr foto di Nicola Melloni Licenza CC 2.0]

Film coraggioso quello di Roser Corella, regista indipendente spagnola i cui documentari hanno una forte connotazione sociale ed etnografica.

A room without a view – Camera senza vista.

Già dalla scelta del titolo, che va a parafrasare il famoso film romantico diretto da James Ivory Camera con vista (A Room with a View), si può comprendere che nelle camere in cui stiamo per entrare non troveremo nulla di sentimentale e nemmeno un  lieto fine, perché l’obiettivo acuto e profondo di Roser Corella ci narra del moderno schiavismo e dello sfruttamento a cui sono sottoposte le lavoratrici domestiche migranti in Libano.

Arrivano da Kenya, Filippine, Etiopia. Vengono reclutate nei loro paesi di origine da agenti intermediari. Partono colme di futuro, perché è stato detto loro che andranno a lavorare come domestiche e che al pomeriggio e nel tempo libero potranno migliorare la loro istruzione.

“Il Libano è un paese bello, pulito e gli stipendi sono interessanti. Ti basta rimanere lì tre anni e torni con tanto denaro”.

E  quando non si ha niente, allora si tenta e si parte, col cuore lacerato e gonfio  di dubbi, perché non è mai facile lasciare la propria famiglia e i propri  bambini. Si tenta anche per se stesse, perché aspirare all’istruzione e ad una vita migliore non è una colpa.

Il film narra della partenza dall’Etiopia di 600 ragazze al giorno, al costo di 400/600 dollari che ognuna deve corrispondere all’agenzia di intermediazione.

Nei paesi d’origine, soprattutto quando si tratta di paesi molto poveri, prima di partire le ragazze partecipano a dei corsi d’istruzione superficiali e veloci di “collaborazione domestica”, “per imparare bene il lavoro” dicono loro, poiché molte di queste ragazze non sanno occuparsi di una casa ricca, perché non conoscono gli elettrodomestici né l’elettricità e nemmeno l’arabo.

Partono sperando di tornare, sicure di tornare e non sanno, invece, che diventeranno le nuove schiave. Vendute dalle agenzie alle famiglie libanesi. Agenzie che si arricchiscono. E molto. Il traffico di vite umane è incalcolabile.

Si chiama Sistema Kafala. Un sistema che crea e si fonda sull’opportunità di abuso, forma moderne di schiavitù legalizzata.

Ragazze finite nella gabbia libanese. Se ne contano 250.000!

Firmano il “contratto” per uno stipendio che va dai 200 dollari (con esperienza) ai 150 dollari al mese. Il capo famiglia ne trattiene uno o due mesi “a garanzia”. “Meglio senza esperienza”, suggerisce l’agente alla famiglia, “quando non hanno esperienza sono ignoranti e non hanno pretese; tanto hai un periodo di prova di tre mesi”.

Una volta firmato il “contratto”, per le ragazze inizia l’incubo.

Diventano di proprietà della famiglia, non hanno più alcun diritto, lavorano 7 giorni su 7 e 24 h su 24 senza pause, senza mai poter uscire di casa, senza poter guardare fuori dalla finestra. Quando restano da sole sono chiuse in casa a chiave e per non fare in modo che provino a scappare, su suggerimento dell’agenzia, vengono trattenuti e nascosti i documenti e il passaporto. Affinché non chiamino i loro cari viene ritirato il cellulare. Non è permesso tenere niente di personale.

Precluso così ogni contatto col mondo, diventano invisibili.

“Dio, dove sono atterrata? Prigioniera, rintanata in una piccola stanza, senza poter vedere la luce e sentire il vento di fuori”.

La loro stanza è spesso molto piccola, soffocante, bassa. Si occupano della casa e dei bambini della borghesia libanese. Capita spesso che i bambini le chiamino “mamma” (i piccoli leggono l’amore non le gerarchie biologiche), perché sono queste ragazze ad occuparsi di loro e a passare il tempo con loro; ma questo “amore delegato” non piace affatto alle madri naturali, e viene così a crearsi un circolo di gelosie e odio razziale ancora maggiore.

Spesso, infatti, se non eseguono tutto il sovraccarico di lavoro che la padrona ordina vengono picchiate. A volte abusate. Il cibo è scarso, se hanno bisogno di un medico questo non viene chiamato e vengono portate in ospedale solo in casi gravissimi, quando magari è troppo tardi. Nessuno chiederà di loro.

Recluse senza colpa. Un oggetto che appartiene a qualcuno.

Il Libano narrato è una nazione che sta attraversando la fase di cambiamento sociale vero il sistema capitalistico. La società libanese odierna è fondata sull’apparenza e su un’immagine di perbenismo da restituire alla collettività. Ecco, quindi, che la casa in cui si è “padroni”, dove  tutto è ordine, pulizia, obbedienza, ne diventa il simbolo, veicolo d’integrazione nella piramide sociale. E le domestiche ne sono un segno, perché lo status sociale familiare varia a seconda della nazionalità di provenienza delle lavoratrici; una famiglia libanese, infatti, paga all’agenzia dai 2.400 dollari per una ragazza keniota fino ai 5000 dollari per una ragazza filippina, la quale quindi eleva ad un rango più alto la famiglia che la trattiene in schiavitù.

La donna libanese deve essere una perfetta padrona di casa, deve sapere ospitare e tenere ricevimenti, deve lavorare fuori casa ed essere una brava sposa e una buona madre. Un miscuglio di identità e frustrazioni che spesso non riesce a reggere e che scarica sulla persona a lei più vicina e che non può difendersi: la lavoratrice domestica.

E’ il sistema che implode. Un tempo erano solo i ricchi a potersi permette una domestica. Oggi moltissimi in Libano si rivolgono alle Agenzie per una ragazza, sia le classi medie che quelle più elevate. E’ diventata una norma a basso costo.

La dichiarazione inquietante e infida dell’art. 7 della Legge sul lavoro del Libano, considera le lavoratrici domestiche parte della famiglia, ma tale dichiarazione, che vuole falsamente apparire d’accoglienza, in realtà ne nasconde la vera motivazione che è quella di escluderle da ogni tipo di diritto, pertanto la loro reclusione non è solo una constatazione, ma è qualcosa di molto più pericoloso e grave, un crimine in cui si violano per legge i diritti umani. Infatti La Sicurezza Generale e Il Ministero del Lavoro hanno emanato dei provvedimenti a favore dei datori di lavoro, il Kafeel, secondo i quali se una lavoratrice domestica esce di casa infrange la legge e può essere arrestata o deportata.

Sole. Queste donne sono completamente sole. Il loro nome è cancellato. La loro identità è cancellata. Semplicemente non esistono.

Alla fine molte si suicidano. “L’abbiamo trattata bene, ma si è suicidata”, o muoiono in circostanze misteriose. Le statistiche parlano di due lavoratrici domestiche morte alla settimana in Libano!

Chi non si suicida prova a scappare, desiderando il cielo e la terra, sognando di tornare a casa. Scappano saltando dalle finestre o dai balconi, legando le lenzuola tra loro, rischiando la vita.

A volte ci riescono e si uniscono, si organizzano, per non tacere, per recuperare la loro identità culturale e i loro talenti, la loro luce, perché sanno che nessuna delle loro storie finirà mai nei tribunali, nessuno verrà mai condannato per gli abusi del Sistema Kafala.

Allora ecco una radio, la Sound Lebanon Station, spettacoli teatrali, tra cui “Not a stranger”, manifestazioni di protesta per abolire il sistema Kafala che deporta e abusa delle lavoratrici. E ogni anno il LaborDay per mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica.

E’ un inizio coraggioso e determinato da parte delle donne che si sono unite e che hanno ottenuto che l’Etiopia proibisse la partenza delle ragazze per il Libano, un primo timido tentativo di arginare la tratta.

E le agenzie? Loro hanno “cambiato tutto per non cambiare niente” e si sono adeguate. Hanno semplicemente e senza alcun impedimento cambiato le rotte. Ora le ragazze arrivano dal Ghana e dalla Nigeria, con la stessa storia delle ragazze etiopi, con lo stesso desiderio di andare all’estero per studiare, per permettere a loro, ai loro figli, alle loro famiglie una vita più dignitosa.

 Lasciano tutto senza sapere che arriveranno all’inferno.

Come si può fermare tutto questo?

Solo se si alza una voce forte e plurale che ne faccia emergere i traffici, che riesca a raccoglierne le testimonianze, che faccia in modo che s’intervenga a livello internazionale.

Questo film come le proteste organizzate in Libano sono primi importantissimi passi.

E non possiamo che condividere i premi consegnati a questa pellicola, tra cui Miglior Film al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli 2021, Miglior documentario ex aequo Laceno d’oro 2021, Menzione Speciale al DMZ Docs 2021, Korea, Premio Amnesty International al DocsBarcelona Film Festival 2021, Spagna.

Un film il cui enorme valore sociale viene ritratto con una regia, una fotografia e una musica che non fa rimpiangere il grande cinema.