[di Anna Roberto] 

THE WORLD OF BANKSY

Un’esperienza immersiva?

      [Bansky a Venezia da Wikimedia Commons foto di Gorupdebesanez licenza CC 4.0]

Il mondo di Banksy. Il titolo scelto per la mostra allestita in Stazione Centrale a Milano con 130 riproduzioni di murales ha fatto gola.

Perché  nel panorama odierno della street art Banksy è l’autore più famoso e celebrato.

Quella in Stazione Centrale non è certo l’unica mostra, le esposizioni sulle sue opere, mai autorizzate da Bansky ma nemmeno impedite, si susseguono in continuazione in giro per il mondo: Parigi, Barcellona, Praga, Bruxelles, Dubai (al Mudec di Milano l’anno precedente  aveva fatto registrare ben più di 12.000 visitatori, secondo solo a Picasso!).

Un “mondo” che ci impone delle riflessioni.

La più immediata è chiedersi qual è il senso di raggruppare queste riproduzioni in un unico luogo e mercificarle ad euro 14.50 a persona, se non quello di stravolgere il messaggio della street art, ridurlo a poltiglia e a “semplice” merce.

Decontestualizzare l’arte di strada, ma in generale tutta l’arte, per esporla in musei e gallerie, benché sembra essere un processo inarrestabile e irrisolto, svuota l’opera stessa del significato originario e ne riduce, oltre all’effetto dirompente, anche l’emozione.  Andare a vedere la street art a museo non è la stessa cosa che trovarsi all’improvviso di fronte ad un murales scaturito da “invasioni” notturne di ribellione e poesia, magari sulla strada che si percorre ogni mattina, magari sul muro di un edificio “significante”.

La stessa emozione che si poteva provare, del resto, nel vedere tele e affreschi pensati per piccole chiese di campagna, per cappelle o conventi, dove quello spazio (e non un altro) aveva l’esatto senso di raccoglimento, devozione, vicinanza, senso di appartenenza e riconoscibilità del luogo.

Non opera tra le opere, capolavoro tra capolavori, come succede nei musei, in un susseguirsi di visioni avide e ingurgitate, una “grande abbuffata” in perfetta linea con i nostri tempi, che non consente, però, quella corrispondenza e quel coinvolgimento che un’opera d’arte richiede, un dialogo interiore ricercato, un silenzio necessario.

Importanti, a questo proposito, le dichiarazioni del direttore degli Uffizi Eike Schmidt: I musei statali dovrebbero restituire alcuni dipinti alle chiese, seguendo il principio del patrimonio culturale come museo diffuso.

Quelle di Schmidt sono rimaste, purtroppo, parole al vento. Troppi gli interessi in ballo che si nascondono dietro il paravento della “protezione delle opere”.

I vantaggi di tale operazione, invece, sarebbero incommensurabili: portare fuori dai musei quelle opere pensate e realizzate per altri spazi e restituirle a quei luoghi, consentirebbe non solo di valorizzare ogni territorio, ma di ricucirne i legami storici e architettonici, i nessi culturali e religiosi.

A maggior ragione per la street art, nata come forma d’arte in contrasto con la proprietà privata e votata alla riappropriazione dei luoghi pubblici, in stretta connessione, quindi, con la storia e il luogo urbano in cui viene creata.

Perché per lo street artist la realtà urbana che circonda un edificio o un muro che egli sceglie per i propri murales è strettamente legata all’opera, ne diviene vincolo che influenza l’azione, il gesto, il significato dell’opera stessa.

Il fatto, invece, di poter esporre le “riproduzioni” dei  murales (tornando alle opere di Banksy), senza dover affrontare grandi problemi di privazione di quel legame, va nella direzione opposta.

E ancora, battere queste opere in aste milionarie o farne pagare il biglietto d’ingresso, impoverisce e svuota il messaggio della street art, che per sua natura, invece, è potente e sovvertitore. Strappare un’opera dai muri per musealizzarla o batterla all’asta, significa snaturarla e distruggerla.

E’ ormai leggenda la parziale autodistruzione del famoso dipinto The Girl with the Balloon che Banksy ha pensato di innescare nel momento della prima vendita all’asta nel 2018 quando una sorta di “distruggi-documenti” nascosto nella cornice ne ha strappato la metà inferiore, lasciando visibile solo il palloncino rosso. Un tentativo di ironica resistenza? Quel “parziale” fa pensare.  La stessa casa d’aste del Regno Unito Sotheby’s, del resto, non perse l’occasione per definire la distruzione “l’evento artistico più spettacolare del XXI secolo”.

Quando lo street artist italiano Blu venne a conoscenza dal Corriere della Sera che avrebbero strappato i suoi murales bolognesi per inserirli nella mostra Street Art – Banksy  & co, che doveva tenersi presso il Museo della Storia di Bologna, ne anticipò lo scempio e nella notte dell’11 marzo 2016 iniziò a distruggerli tutti, come atto di protesta contro ciò che considerava “privatizzazione” della street art.

“La mostra “Street Art”, fa sapere Blu attraverso il collettivo Wu Ming, “è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi. Di fronte alla tracotanza da landlord, o da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni. Agire per sottrazione, rendere impossibile l’accaparramento”.

Non sono riusciti a venderlo Blu.

 [Murales di Blu – Brothers da flickr foto di Rae Allen licenza CC 2.0]

 

Murales di Blu - Ex Casa del portuale- Messina (oggi quasi totalmente scomparso)

    [Murales di Blu – Ex Casa del portuale- Messina Murales da flickr foto di Marco Crupi licenza CC 2.0]

La critica d’arte Fabiola Naldi, esperta in street art, suggerisce come questo tipo di arte contemporanea “nasce, vive e muore, come noi; non ha alcun senso pensare di utilizzare la stessa filosofia conservativa impiegata per l’arte antica o moderna. Il senso e la fruizione sono “completamente diversi“. La sola idea di ‘strappare’ un murales – con la tecnica di rimozione degli affreschi – “sarebbe uno sfregio, sia nei confronti dell’opera sia di chi l’ha concepita e realizzata.

La dichiarata lotta di Banksy, formatosi nella scena underground di Bristol, originariamente doveva essere proprio quella della street art, ossia di sovversione e rivolta al sistema; una lotta contro la mercificazione e il consumismo. Bansky invece, ad oggi, in questo sistema sembra esserne dentro fino al collo. Arruolato e annacquato. Fino a ribellione contraria.

Le sue opere sono veramente opere d’arte? Tanto da essere esposte accanto a Rembrandt? Banksy piace “statisticamente” a tutti, forse proprio perché “anestetizza”, rimane cioè in superficie, non consente molteplici livelli di lettura, non richiede allo spettatore il proprio coinvolgimento interpretativo, non concede sfumature e non lascia porte aperte (prerogativa delle grandi opere d’arte); potrebbe essere questo un campanello d’allarme?

Il dubbio viene. Soprattutto a guardare un pochino più in là.

Per esempio ai murales politico-sociali degli anni ’90 in Londonderry, Irlanda del Nord, opere dei “The Bogside Arists”. Dodici opere che raccontano la storia di oltre tre decenni di conflitto politico e degli scontri violenti tra la popolazione e l’esercito britannico nel quartiere Bogside, durante le dure e sanguinose ostilità nordirlandesi, opere  dipinte grazie alla sovvenzioni dei loro concittadini e denominate “The People’s Gallery”, la galleria d’arte del popolo, un dirompente effetto visivo ed emotivo che si estende per l’intera lunghezza di Rossville Street. I “The Bogside Arists” definiscono il loro un lavoro di “uomini che parlano agli uomini”, non interessati ad essere riconosciuti artisti contemporanei, perché “Tutta la vera arte è contemporanea in quanto ha le sue origini nello stato d’animo veritiero che è senza tempo”.

[“Lost in food”, Murales di The Bogside Arists – Londonderry da flickr foto di Tom Bastin licenza CC 2.0]

    [Murales a Orgosolo dal sito pxhere licenza CC0]

[Murales in Orgosolo da flickr foto di Heather Cowper licenza CC 2.0]

   [Murales in Orgosolo da flickr foto di Heather Cowper licenza CC 2.0]

Oppure basta guardare ad Orgosolo, cittadina della Barbagia, in Sardegna, le cui strade contano 150 dipinti murali, opere per comunicare con intensità gli usi, la cultura e i costumi di quella terra, la quotidianità rurale o ancora le lotte politiche e le proteste. Il primo murales risale al 1969 dipinto dal  collettivo anarchico Dioniso, seguito pochi anni dopo, da quelli di un insegnante senese che con i suoi alunni della scuola media, li dipinse per onorare la Resistenza e la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Esempio seguito poi da innumerevoli borghi tra cui quello di Bettolle, in provincia di Siena, dove il pittore Federico D’Agostino ha guidato i suoi alunni dell’Auser alla realizzazione di murales sulle vicende locali dipinti nelle strade del paese. Sono storie importanti di riappropriazione dei luoghi e della memoria oltre che di affermazione della creatività.

Basta guardare ai giganteschi murales onirici di Millo, artista italiano di nome Francesco Camillo Giorgino che restituisce dignità ai luoghi invisibili delle città in cui lavora: Torino, Roma, Milano, Londra, Parigi, Rio de Janeiro oltre a moltissime cittadine più piccole e meno note;

I muri di Millo

    [I muri di Millo da flickr foto di Irene Grassi licenza CC 2.0]

Non ho un messaggio unitario nelle mie opere, ogni opera porta con sé un messaggio diverso e creato appositamente per il luogo in cui si troverà”. Difficile rinchiudere Millo in prigioni espositive. Narra la fragilità dell’esistenza umana, le sue paure, le sue interiorità, sempre in relazione all’ambiente e alla situazione vissuta.

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E poi Sean Yoro, conosciuto con lo pseudonimo di Hula, street artist di origini hawaiane, che vive a New York, che sradica le “regole” dell’arte di strada creando murales a fior d’acqua, sulle pareti di vecchi edifici abbandonati, affrontando tematiche legate all’ambiente.

 

Sono innumerevoli gli esempi, ed è un viaggio che stupisce quello che ci porta a ricercare un po’ oltre, senza fermarsi a ciò che ci viene facilmente imbandito sulla tavola di una falsa partecipazione, scoprendo opere forse più vicine alle nostre domande, al nostro bisogno di indagare dentro noi stessi.

   [Alice Pasquini-Oslo da flickr foto di Ferdinand Feys licenza CC 2.0]

Vorrei concludere con Shamsia Hassani, nata a Teheran nel 1988 da genitori afghani fuggiti da Kandahar durante la guerra. Lei donna, in un paese in cui è difficile esprimersi, ritrae le donne sui muri segnati dalla guerra, avvolte nel tradizionale chador, con strumenti musicali o immerse nei loro pensieri in una lotta che è prima di tutto interiore. Per evitare aggressioni, Shamsia dipinge velocemente, in zone isolate e in orari poco battuti. Delicati e forti, destabilizzanti e profondi, i suoi murales sono punto di riferimento per una speranza che non vuole essere sotterrata; “L’arte cambia la mente delle persone e le persone cambiano il mondo” scrive Shamsia.

A guardare bene…

“Banksy. Un’esperienza immersiva”?

Le azioni messe in campo, le parole, i titoli, sono importanti, perché l’operazione di “recupero” delle opere di street per il mercato dell’arte, non consente solo la speculazione degli organizzatori delle mostre stesse e l’arricchimento dei mercanti d’arte, ma attua qualcosa di più pericoloso, ossia va verso l’annullamento dell’opera della street art che vuole invece sorprendere, stordire, essere pubblica e accessibile a tutti. Sopratutto accessibile a tutti.

E se proprio si vuole pensare anche “all’arte urbana in interno”, un interno comunque pubblico, questa deve diventare una riflessione sugli spazi chiusi, disponibili e da mettere a disposizione, una sfida alla creazione, per gli street artist, di sinergie altre.