Parola olofrastica equivalente a una proposizione negativa

[Un racconto di Antonella Marsiglio]

                                                                                                                                             [Foto di Ernesto Miramondi]

Personalmente non sono un’amante dei social, ma sono iscritta ai due più popolari e questo mi ha permesso di restare in contatto con amici che negli anni si sono trasferiti conducendo la propria vita lontani da Milano. Ovviamente le amicizie in questione non sono numeri da influencer, ho sempre e solo accettato e richiesto l’amicizia di persone che conosco nella vita reale, ma la rete apre opportunità facili per fare amicizia, un gruppo o una pagina di un argomento che ti interessa e trovi persone con cui dialogare, e capita spesso che nasca una simpatia reciproca e si decide di chiedersi l’amicizia … ma negli ultimi tempi ho notato e sperimentato personalmente un fenomeno antipatico facilmente riassumibile in poche battute:

richiesta d’amicizia

messaggio privato

“Ciao sei single?”

“ciao, no”

E in meno che non si dica l’immagine dell’interlocutore diventa grigia e mi accorgo di essere stata bloccata.

Questa è la variante che preferisco, due messaggi e tutto torna come prima senza troppo disturbo, ma c’è anche chi decide di proseguire e quello che ne esce è spesso esilarante.

“Peccato, sei carina. Hai un’amica single?”

Si, giuro che me lo hanno chiesto!

“Peccato, ma possiamo incontrarci ugualmente?”

Da donna trovo veramente patetico questo tentativo volgare di cercare compagnia, ogni volta mi ritrovo a chiedermi se queste persone veramente credono che questo atteggiamento possa attrarre una persona del sesso opposto, e soprattutto mi chiedo perché non vadano su siti ben più idonei di incontri.

Ma se la vita sui social è virtuale, e basta il tasto BLOCCA per tornare alla serenità di tutti i giorni, cosa succede quando certe avance insistenti non arrivano dal virtuale? Quando magari chi esagera è una persona che conosci, l’amico di un amico, o peggio un collega di lavoro?

I colleghi li incontriamo tutti i giorni, possiamo tentare un atteggiamento distaccato, scandire a chiare lettere, con modi inequivocabili, che la cosa non ci interessa, ma se dall’altra parte del nostro “no” la risposta è una continua insistenza? Si, ci siamo capiti, sto parlando di stalking (atteggiamenti messi in atto da un individuo per affliggere un’altra persona, perseguitandola e spaventandola), azione che anche per la legge risulta essere un reato minore, non lascia segni visibili e quelli dell’anima, ahimè, faticano ad essere considerati un’aggravante.

L’atteggiamento più comune che abbiamo all’inizio è quello di credere di poter gestire la situazione “Se non gli do’ corda presto si stancherà”. Non è vero, non si stancherà! E’ più probabile invece che diventi più insistente, assillante e questa situazione porti ad una spirale distruttiva. Spesso la frustrazione innesca in noi uno sbagliatissimo senso di colpa che potrebbe portare a pensare che la colpa sia della vittima, un innocuo “forse il mio atteggiamento lo ha portato a pensare che fossi disponibile?” che penetra nella testa, creando a lungo andare danni enormi.

Io ho subito lo stalking, io so che questo pensiero prima o poi arriva.

Io sono una persona che il caffè con i colleghi lo va a bere, se c’è da parlare di calcio non mi tiro indietro, perché… passo velocemente al ciao e quando qualcuno si è preso troppa confidenza (non ricambiata) non ho potuto fare a meno che attribuirmene la colpa. Ma è proprio qui che sbagliamo! Noi siamo assolutamente responsabili dei nostri atteggiamenti, esattamente come gli altri sono responsabili dei loro, se diciamo “no”, quel no va e deve essere rispettato.

Angoscia che ci tiene compagnia in quelle notti in bianco che passiamo a trovare una soluzione, intanto i messaggi diventano trenta, cinquanta, cento al giorno, alcuni contengono minacce, altri immagini di cattivo gusto. Spesso pensiamo di bloccarlo quell’utente indesiderato, ma nella paura che sapendo dove abiti potrebbe venirti a cercare, scegli quello che in quell’istante ti sembra essere il male minore. Per paura di essere giudicate o di sentirci chiedere “ma non è che tu lo hai provocato?”, o peggio ancora di essere considerate delle stupide perché non siamo riuscite a gestire un pretendente troppo insistente.

Intanto i mesi passano e la lucidità mentale viene meno, non riesci più a capire cosa sia giusto e cosa non lo sia. Hai la tachicardia ogni volta che senti suonare la notifica dei messaggi, e quello strumento che tenevi tra le mani nei momenti di svago, diventa il tuo peggior nemico. Una volta una mia amica che sapeva cosa mi stava accadendo e cercava di convincermi inutilmente di fare la cosa giusta, vedendo il cellulare illuminarsi sul tavolo lo prese in mano dicendo “se è ancora lui gli rispondo io..” . Non era lui, ma la sua faccia impallidì, e tra l’incredulo e lo spaventato esclama “hai centottantacinque messaggi non letti. Sono tutti suoi?” “non lo so, ma ho paura ad aprire WhatsApp, potrebbe accorgersi che sono online. Fu quello il momento che realizzai quanto tutto ciò sesse condizionando la mia vita..

Chi mi conosce sa che per carattere sono una combattiva, eppure in quel momento non riuscivo ad essere nemmeno l’ombra della persona che da trent’anni lotta contro la violenza sulle donne, ma quando ci si è dentro tutto cambia prospettiva ed inizi giorno dopo giorno a spegnerti, ti si prosciuga l’anima e la risposta delle Forze dell’Ordine, per colpa di una legge poco efficace, non ci da’ soluzione.

E allora cosa fare? Soccombere, arrendersi, scappare?

Cosa ho fatto io? Ho risposto ad uno dei centottantacinque messaggi non letti, quello di un amico che mi chiedeva il motivo del mio atteggiamento, mettendomi di fronte alla realtà, perché mentre crollavo nel mio abisso stavo perdendo gli affetti più cari. Gli ho raccontato tutto e lui non solo non mi ha dato della ‘facile’ o della ‘stupida’, ma al contrario mi ha supportato, dicendomi che ci avrebbe parlato lui con questo individuo. Questo è bastato a dissipare la nebbia della mia mente, a ricordarmi che ‘CIAO’ non significa ‘TI VOGLIO’, che io ero la vittima e non la colpevole. Mi ha ricordato che esistono centri antiviolenza, che l’isolamento è una prigione che ci costruiamo da sole, e di sicuro non è la soluzione. Non è facile riprendere la propria vita in mano, le cicatrici rimangono per lungo tempo, ma ce la si può fare.

Non vergogniamoci di parlare con gli amici e con i parenti, e ricordiamoci sempre che se diciamo no.. vuol dire no!