[Di Tania Dachille]
GIOVANNI
Non scriverò nessun particolare che possa ricondurre questo racconto al diretto interessato, non scriverò il periodo o la città. Ne menzionerò la struttura o i medici che si occuparono di Giovanni e, chiaramente, Giovanni è un nome fittizio, il nome di un giovane ragazzo di 15 anni che a detta della dottoressa “Laura” e della sua equipe rifiuta di fare psicoterapia, rifiuta i farmaci e reagisce ad ogni sollecitazione con reazioni violente. Sempre più isolato, non ha più amici, non parla non frequenta più la scuola.Giovanni è vittima di stupro.
Un tipo di stupro di cui non si parla perché nella nostra ipocrita e bigotta società le violenze fisiche e psicologiche o ancora peggio sessuali, sui maschietti sono dei veri e propri tabù.
La dottoressa Laura mi racconta che Giovanni, prima, oltre ad essere un ragazzino allegro, curioso e affamato di conoscenza, è stato anche un grandissimo appassionato di sport. Molto atletico, gli riuscivano bene tutte le attività sportive che avesse voluto praticare.
Per questo motivo, non avendo ancora ottenuto alcun tipo di altro risultato concreto, hanno voluto alimentare quella minuscola fiammella di vita che ancora si vede in lui quando in tv c’è una partita di basket o quando, in un raro momento di tranquillità, salta i muretti per la strada.
Al centro di cura la terapia con Giovanni si svolge in una stanza dedicata alla riabilitazione motoria con molti attrezzi sportivi ed è lì che io e Giovanni ci incontrammo per la prima volta e anche per le volte successive.
Al nostro primo incontro iniziammo la seduta con un po’ di esercizi a corpo libero, passando per l’atletica leggera e terminando con del sollevamento pesi, senza mai scambiarci una parola, senza che mai avesse contestato qualche mia richiesta.
Ma non mi era sfuggita la sua mandibola serrata e la voglia di portare tutto il suo corpo allo stremo delle forze. A lezione finita a stento alza una mano per salutarmi, non emette alcun suono e sparisce veloce nello spogliatoio.
Al nostro secondo incontro Giovanni si presentò agitato, arrabbiato e nervoso. Nessuna intenzione di lavorare e, alla mia cortese e cauta insistenza a svolgere gli esercizi, la sua risposta fu quella di prendere a calci alcune delle attrezzature sportive a disposizione e lanciarne per aria altre.
Cosi, avvolti nel mutismo più totale, presi il mio borsone spiegandogli d’essere anche un’istruttrice di difesa personale e ne tirai fuori guantoni e colpitori, che lo attrassero immediatamente.
Gli si avventò sopra come ape sul miele.
Giovanni fu letteralmente assorbito da ogni colpo che sferrava, ed io allora pensai che un buon risultato forse l’avevo raggiuto, ma mi sbagliavo, c’era molto di più da tener conto. Molto di più.
C’era in lui qualcosa di molto più grosso del semplice voler incanalare la rabbia verso un sacco di sabbia.
Quando si fermava per riprendere fiato diceva che quello sì era uno sport per veri uomini e lui, non era gay!
Mentre colpiva diceva che non capiva perché non l’avesse praticato prima questo sport, lui non era gay! E intanto la rabbia continuava a crescere.
Iniziò ad inveire contro la madre e i medici che non gli avevano mai permesso di fare questo sport.
Già il suo pensiero era che non gliel’avevamo mai lasciato fare perché pensavano che lui fosse gay e che lui si era trovato immerso in un susseguirsi di eventi senza fine!
Gli amici credevano che fosse gay, e così i compagni di sport e quelli di classe. La famiglia. I professori, i dottori e i terapeuti. Tutti quelli con cui aveva avuto a che fare, proprio tutti, pensavano che fosse gay.
Era ovvio che gli fosse capitato quello che poi gli era capitato se tutti pensavano che fosse gay!
Tutti tranne io naturalmente!
Certo, volevano convincere anche me della sua omosessualità ma io, più intelligente, non mi sono fatta ingannare. Avevo capito che non era gay ecco perché avevo portato i guantoni da boxe e gli avevo permesso di imparare uno sport da veri uomini.
Rimasi interdetta per tutto il tempo della seduta, anche quando, a fine lezione, Giovanni mi salutò con un largo sorriso abbracciandomi.
Interdetta anche di fronte alle facce incredule e ai complimenti degli astanti, perché ero riuscita a far interagire Giovanni in sole due sedute e lui, non solo mi aveva parlato, ma si era spinto anche ad un contatto fisico.
Complimenti che non sentivo, frasi che non assimilavo, vedevo i volti delle persone intorno a me felici e io, l’unica cosa a cui pensavo, era che secondo Giovanni, tutte quelle persone credevano che lui fosse gay, ma perché?
Lo chiesi alla psichiatra.
Mi rispose che questo era normale per lui visto ciò che aveva subito. Mi spiegò che essendo un maschio secondo la società in cui viviamo i maschi non vengono stuprati, quella della violenza sessuale è una prerogativa tutta al femminile; I maschi sono violenti verso le donne, mai il contrario.
Spiegazione scientificamente corretta ma che non mi convinse del tutto, non poteva bastarmi dopo aver conosciuto Giovanni, non dopo aver lavorato con lui quel giorno e per la sua reazione così peculiare.
E arrivò la terza lezione. Quella che sarebbe stata la nostra ultima lezione anche se non lo sapevamo ancora.
Trovai Giovanni arrabbiato e agitato come al solito. Impaziente di allenarsi si avventò sulla mia borsa come un cane sull’osso in cerca dei guantoni, la svuotò completamente ma non c’erano proprio.
La borsa era piena di molta attrezzatura sportiva ma niente che riguardasse la boxe o ogni qualsivoglia sport da combattimento.
Realizzò in quell’istante che non avremmo fatto ciò che lui si aspettava di fare da tutta una settimana ed esplose. Esplose di una rabbia cieca fatta di urla contro me e contro il mondo intero che lo voleva gay.
Ferito cominciò a picchiarmi e a riempirmi di insulti e urla di disprezzo, io collocata fra tutti gli altri, anzi peggio degli altri perché l’avevo ingannato.
Con movimenti lenti ma decisi gli presi i polsi, in una figura da arte marziale, molto basica e innocua e lo immobilizzai a terra.
Con voce calma e ferma gli dissi, e non gli chiesi, che durante quello che gli era accaduto aveva avuto un’erezione.
Gli dissi che per quanto potesse sembrare assurdo era una cosa del tutto normale in quanto meccanica, non volontaria.
Gli dissi che non c’era niente di male nell’essere gay ma che quanto era accaduto non faceva di lui un gay.
Gli dissi e non gli chiesi, che sicuramente aveva avuto un’erezione durante quell’atto così brutto e traumatico. Un’erezione che lui trovava colpevole perché non avrebbe dovuto esserci a meno di non trovare piacere. spiegai che erano tutte delle enormi cazzate dettate dalla mancata conoscenza del proprio corpo.
Gli parlai della ghiandola prostatica e della sua funzione.
Poi lo feci rialzare e ricomporsi perché di li a breve avrebbe dovuto fare una interessante lezione di anatomia con la psicologa.
Giovanni si mise seduto e cominciò a piangere. Un pianto così forte e inarrestabile da temere che non avrebbe mai più prodotto altre lacrime in vita sua.
L’ho baciai sulla fronte e gli dissi di continuare a piangere finché ne aveva voglia e che ora era pronto per farsi aiutare ad uscire da quell’incubo.
Dopo di che raccolsi le mie cose e passai il testimone alla Dottoressa che ci aspettava davanti alla porta, pronta a iniziare il nuovo percorso riabilitativo con Giovanni.
Piansi nel parcheggio della struttura per più di un quarto d’ora prima di essere nuovamente in grado di rimettermi alla guida.
Giovanni è l’ennesimo prodotto di una società ignorate e ipocrita.
Quando si nomina sessuologia come programma didattico nelle scuole, si viene per lo più aggrediti. Spero che questa storia possa far riflettere sul fatto che la parola “SESSO” non è sinonimo di “PORNO”.
I ragazzi vanno aiutati nel comprendere le cose prima che commettano o subiscano eventi importanti, capaci di compromettere per sempre la qualità delle loro vite.
Il sesso è un elemento fondante nella vita di un essere umano, non possiamo permettere che imparino da soli, su internet o che la conoscenza avvenga tra coetanei.
Abbiamo il dovere di educarli ad affrontare la vita sotto ogni forma. E chissà quanti Giovanni, meno fortunati, sono sparsi per il mondo, senza risposte o peggio con quelle sbagliate. Vittime di un sistema che li comprime senza permettere loro di capire la loro vera natura, i loro reali bisogni, per permettere loro scelte libere e consapevoli.
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