PIAZZA FONTANA

1969 – 2019

La verità è una

Testo e foto di Anna Roberto

  “… Poi un giovane col berretto rosso
balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ecco, le ciglia erano tutte corrose
sulle palpebre marce;
le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un’anima morente
le era scritta sul volto.
Ma la folla vide perché portava la benda”.

ANTOLOGIA DA SPOON RIVER di Edgar Lee Masters

Epitaffio di Carl Hamblin inciso sulla lapide di Pinelli a Turigliano (Carrara)

Piove.

Di quella pioggerellina fine e invisibile.

Emilia sta tornando a casa. E’ quasi

arrivata all’angolo della farmacia, la luce verde intermittente, le scarpe bagnate. Ha dimenticato il suo foulard.

Domani è il 12 dicembre.

Nel 1969 Emilia era solo una bambina.

Ed era il tempo dell’odore della nebbia e del fumo di sigaretta che invadeva le stanze. Era il tempo dei passi veloci, quelli che al mattino portavano a scuola, dei panini caldi comprati dal panettiere prima di tornare a casa. Uno a testa. Subito, senza aspettare di arrivare a casa. Uno per lei e uno per la sua mamma. Il profumo si sprigionava caldo e avvolgente dal sacchetto di carta. Un rituale che le rendeva complici e felici, fin dalla prima elementare.

La scuola era quella di via Palermo. Al quartiere Garibaldi di Milano ch’era ancora popolare. Il ciabattino, il lattaio, il prestinaio, il salumiere. Il Garibaldi dei Brambilla, dei Pescione, dei Messina. Capelli rossi e ricci, grandi lentiggini sul viso. Undici i Messina, otto i Pescione. Tutti in strada a giocare.

Questo prima della chirurgica espulsione del ceto popolare dall’antico quartiere.

Erano gli anni in cui il padre di Emilia, custode di un palazzo in Piazza Castello, doveva socchiudere spesso le ante del grande portone per via degli scontri violenti che occupavano le strade. Le sirene, i fumogeni, gli scoppi, le urla -Presto! Corri dentro! Vai dentro! – le urlava suo padre.

Quel giorno sua sorella maggiore non era ancora tornata dalla lezione di danza; il padre si era messo preoccupato ad aspettarla all’angolo della strada; un occhio al portone, l’altro inquieto, sul fondo della lunga via annebbiata dai lacrimogeni, nella speranza di distinguere la piccola sagoma in arrivo. Aveva ormai deciso di lasciare la portineria rischiando il posto di lavoro per andarla a cercare, quando la vide comparire, come dalla nebulosa di un sogno. Le sue mani grandi dalle dita ingiallite di  sigarette sempre accese, strapparono dalla nuvola di fumo bianco la piccola forma in corsa e asciugarono e calmarono quel viso rigato dalle lacrime, le trecce lunghe e scarmigliate, le scarpette a punta di raso rosa penzolanti per l’andatura affannosa e scomposta, i lacci stretti in una mano.

 – Papà! –

Strani giorni per Emilia quelli.

La madre in casa medicava poliziotti e carabinieri e nascondeva in terrazzo studenti e operai.

Emilia, in un angolo, guardava in silenzio.

Quante forme ha la verità?

All’epoca dei fatti, in quel 1969, era solo una bambina, aveva appena iniziato ad andare a scuola. Era pomeriggio, stava studiando una poesia per compito, una poesia per una bambina di prima elementare che sta aspettando il Natale. “Se comandasse lo zampognaro che scende per il viale, sai che cosa direbbe il giorno di Natale?”. Poi si fermò tutto. Quello scoppio sordo a far tremare i muri, il pavimento, le vetrate. Emilia l’aveva sentita la bomba, “Se comandasse lo zampognaro…”, l’aveva sentita. E si fermò tutto.

Le immagini di quel 12 dicembre si rincorrevano ai telegiornali,“ORRENDA STRAGE A MILANO”, immagini di devastazione all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, immagini strazianti e quelle due assurde sedie rimaste intatte al centro del salone.

Era gente semplice, che lavorava, che si dava appuntamento alla Banca il venerdì pomeriggio per stringere affari, bastava una vera e propria stretta di mano. I gesti emozionati, la testa colma di pensieri, di desideri. E in un istante terribilmente breve si erano sorpresi, invece, a cercare per terra i loro resti di carne sparsi ovunque, a cercare i loro discorsi interrotti in un odore di sangue e di mandorle amare. Loro che dovevano far ritorno a casa costretti invece dentro un tempo impiccato, rubato, sul ciglio dell’ultimo pensiero. E c’era chi non aveva fatto nemmeno in tempo.

-Mario, spegni quella dannata TV, non voglio che le bambine vedano-.

Ma Emilia sapeva già leggere, aveva imparato velocemente e leggeva di tutto. Proprio tutto. Anche per strada, insegne, cartelli, pubblicità, i nomi sulle cassette della posta.

E poi in portineria arrivavano diversi giornali da smistare, incasellare, consegnare. Li consegnava lei.

O – R R E – N D A   S T R – A – G E   A   M I – L A – N O”.

Emilia leggeva. Chiedeva. Leggeva. Cercava di mettere in ordine le parole. Cercava un filo a tutta quella confusione. Mamma, che cos’è l’A-NA-R-CHI-A?

E la mamma il lunedì successivo, la portò con sé ai funerali in Duomo. Era il 15 di dicembre, una folla immensa, un fiume di popolo proveniente da ogni vicolo. E non bastava la piazza a contenerla tutta. Una città intera sgomenta e impietrita in assoluto, iconico, rabbrividito silenzio. Così irreale e assordante che Emilia non lo avrebbe mai più dimenticato.

Ma si era solo all’inizio. Il 16 arrivò la tragica notizia di Pinelli. La storia la conosciamo tutti.

E fu davvero troppo. Perché Emilia non dimenticando, crescendo, avrebbe realizzato che in quell’inammissibile volo era racchiuso tutto il fallimento di una strategia del potere così come era stata concepita a quel tempo.

-Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato il meccanismo– così ci racconta Licia Pinelli, sua moglie.

Pinelli è stato un “incidente di percorso”, l’ago della bilancia che ha consentito la rimozione delle bende dagli occhi. Non te lo aspettavi, vero Pino, d’essere proprio tu ad indicare la strada? 

E non se l’aspettavano nemmeno loro la risposta del popolo milanese quando hanno tentato di dire ciò che proprio non era. Una risposta che non aveva potuto essere immediata, bisognava arrivare a mettere assieme i pezzi del puzzle, bisognava potersi rialzare. Non era facile esserci in mezzo. Si era ben lungi, in quelle ore, dall’afferrare una verità grande fatta di servizi deviati, di poteri al servizio di potenze estere. Poteri capaci di manipolare fatti, distruggere prove, dimostrare la necessità di un governo forte, di polizia, capace di bloccare sul nascere il desiderio di un paese giusto, rimessosi in piedi dopo una guerra devastante. Era stata una lenta ma lucida, lucidissima presa di coscienza.

Il popolo milanese era sgomento, certo, ma non stupido. Quanti insulti alla sua intelligenza! Prima di quella bomba gli operai stavano protestando uniti, compatti, mai come allora. Scioperi, picchetti, occupazioni delle fabbriche, cortei.

E non avrebbero smesso.

Piazza Fontana, al contrario di quanto si continua a dire, non è stato l’inizio. La “strategia della tensione” ha avuto un lungo periodo di preparazione sin dai primi anni sessanta con la chiamata a raccolta delle formazioni neofasciste utilizzate come mano armata. Con piazza Fontana, caso mai, il potere ha perseguito i suoi scopi con mezzi sempre più efferati, in un’infinita scia di morti e bombe senza colpevoli.

Era stato un 16 dicembre lunghissimo, quello, che non voleva finire mai.

In diretta dal TG1 Bruno Vespa sentenziava –Individuato il colpevole della strage-.

Gigantesca e ripetuta l’immagine di Pietro.

-Spegni quella dannata TV!-

– Mamma, ma che cosa ha fatto Pietro? –

Perché Emilia, Pietro Valpreda lo conosceva. Solo di vista, certo, era uno del quartiere e un tempo al Garibaldi si conoscevano tutti.

Pietro sbattuto su tutti i giornali come «il mostro di piazza Fontana» (l’Unità), come «una belva oscena e ripugnante» (Secolo d’Italia), «una belva umana mascherata da comparsa da quattro soldi» (Il Messaggero), «un pazzo sanguinario senza nessuno alle spalle» (Il Tempo).

-Mamma, ma che cosa è successo? Che cosa ha fatto Pietro?-

-Niente.-

La grande orchestra del linciaggio.

“LO STATO SA DIFENDERSI. UN BALLERINO ANARCHICO AUTORE DELLA STRAGE”.

Lo stato? Un Ballerino? Mamma, che cosa vuol dire essere anarchici?

Erano gli anni in cui l’infanzia toccava con mano i fatti e scolpiva il pensiero.

Quando Valpreda, dopo tre anni di carcere, tornò a casa, ci tornò solo in libertà provvisoria, piantonato notte e giorno.

Passavano di lì per andare a scuola, Emilia e la sua mamma.

-Ma che ci fanno quei due carabinieri sul portone di Pietro? Stanno sempre lì. Mi avevi detto che non aveva fatto niente. Che cosa ha fatto Pietro, mamma?-

-Niente-.

-E allora perché stanno lì?-

Quante forme ha la verità? Una Emilia. Solo una. La verità è una!

Quando, vent’anni dopo fu finalmente libero, a Emilia capitava d’incrociarlo nel quartiere -Ciao, Pietro- e con quel suo saluto tenero e fuggitivo esprimeva l’urgenza di dire -io so che non hai mai fatto niente-.

Era uno schierarsi contro tutta quella grande ingiustizia scoperta da bambina e patrimonio della sua coscienza.

Divenne insegnante, Emilia, e ogni 12 dicembre li portava lì i suoi allievi, in Piazza Fontana, li portava davanti alla lapide di Pinelli, anzi davanti alle due lapidi di Pinelli. Lo sappiamo tutti che sono due: una che recita “morto innocente”, l’altra che ci ricorda “ucciso”. Sì, ucciso. Milano è attenta e non arretra.

Ci si consumava nelle letture e nelle sigarette che si stringevano forte tra le dita. Ci si consumava nell’oblio di una verità giudiziaria conseguenza di mille processi, una verità sfigurata, calpestata, ridotta a brandelli come i corpi delle vittime di tutte le bombe.

Non la verità vera. Quella la conosciamo. Quella non la potrà toccare mai nessuno.

Non è vero che ci sono misteri. Non è vero che non si sa nulla.

Tutto è così tremendamente chiaro e dimostrato.

E’ quasi sera. Non manca molto per arrivare a casa. Cammina lenta Emilia. Sta piovendo.

Di quella pioggerellina fine e invisibile.

Prima di svoltare l’angola della farmacia, la ferma un suo vecchio allievo.

-Buona sera Maestra!-

Era tra i più brillanti, tra i più partecipativi. Se lo ricorda bene Emilia. E’ felice d’averlo incontrato.

-Come stai, Claudio? Cosa fai, ora? E’ bello vederti-

-Maestra, porti ancora i bambini a Piazza Fontana? Perché, secondo me, maestra, è meglio che non si ricordi più nulla, che non si celebri più nulla, è tempo di dimenticare, maestra, altrimenti a qualcuno potrebbe anche tornare la voglia di riprovarci, no?-.

Ora manca veramente l’aria. Emilia abbassa lo sguardo, guarda la punta delle sue scarpe bagnate, il loro riflesso nella pozzanghera. Piove quella pioggerellina fine e invisibile, sporca, a ricordarle la notte.

-Già, Claudio.-

Abbassa lo sguardo e accarezza il guanto che tiene in mano.

-Forse.-

Fa freddo.

Domani è il 12 dicembre.